La Casa degli Esploratori saluta Angelo Castiglioni

Angelo Castiglioni, esploratore, documentarista e archeologo insieme al fratello gemello Alfredo (scomparso nel 2016), ci ha lasciati proprio nel momento in cui tutti noi abbiamo più bisogno di mantenere l'orizzonte aperto. La notizia della sua morte - resa nota giovedì 17 febbraio - è stata subito rilanciata da testate italiane ed estere, indulgendo in note biografiche così come in sentiti commiati, ma lasciando comunque attoniti alla cerimonia d'addio a Varese, svoltasi due giorni dopo. Prova inconfutabile della straordinarietà del personaggio, che occorre però inquadrare storicamente onde apprezzare appieno l'enorme lascito alla comprensione italiana dell'altro e dell'altrove.
Senza le voci di Angelo e Alfredo, oggi viene meno la nostra capacità di leggere dal vivo le grandi trasformazioni che continuano a investire il più misinterpretato dei continenti: quell'Africa multietnica, post-coloniale, migrante eppur ancestrale, sempre sul punto di superar se stessa ogniqualvolta paia concedersi ai miti della produttività o, ancor peggio, del profitto. Per fortuna i due intrepidi fratelli, nati a Milano nel lontano 18 marzo 1937, sono stati consci del valore delle proprie esperienze sin dalle prime esplorazioni alla fine degli anni '50, affidando agli archivi di famiglia e al museo loro intestato - il Museo Castiglioni di Varese - una quantità smisurata di testimonianze da studiare sino allo sfinimento. Sculture lignee, calchi d'incisioni, maschere, utensili tradizionali, ma anche appunti, registrazioni audio, filmati, reperti che raccontano oltre 60 anni di spedizioni dall'Africa Occidentale a quella Equatoriale, dall'oro dell'Egitto ai pastori nomadi del Sudan, mappando via via i territori più reconditi del Continente Nero. Questa è senza dubbio l'eredità fisica che ci lasciano, di cui ora è custode il figlio Marco direttore della struttura, ma in merito alla quale ha recentemente acceso l'attenzione anche il ricercatore storico Alessandro Pellegatta, grazie al libro "Esploratori Lombardi" (Edizioni Delfino, 2020) e alle pagine del suo interessantissimo blog "Andare nell'altrove".
Visitare il Museo Castiglioni, affiancando la lettura dei testi di prima mano a quelli di approfondimento sulle imprese dei celebri fratelli, è indispensabile per capire cosa significhi davvero "aprirsi la via": uscire inconsapevolmente dal tracciato, dal pre-condizionato, imparando ad accogliere l'invisibile e l'inaudito. Conviene però soffermarsi su alcuni aspetti della vita di Angelo e Alfredo che, al di là delle scoperte sensazionali di Berenice Pancrisia o Adulis, maggiormente ci parlano della loro messa in sospensione dello sguardo occidentale. Pericoloso e dannoso anche a decenni di distanza dalla fine degli imperi coloniali. Sono proprio i due fratelli a farci da guida e accompagnarci in questo percorso, grazie all'avvincente raccolta "Quarantanove racconti d'Africa" (Nomos Edizioni, 2011).
Primo passo: la costante presenza - sin dal viaggio inaugurale in Vespa da Varese al Marocco fresco d'indipendenza - di un "terzo passeggero" che si rivelerà "guida di scorta". Compagno che di volta in volta è aiutante, interprete, altre ancora mediatore delle popolazioni stesse in cui i due esploratori s'imbattono. Angelo e Alfredo non commettono mai l'ingenuità d'interpretare dall'esterno ciò che vedono o sperimentano - così tipico dei grandi esploratori in servizio per governi od organizzazioni e di cui i due sono sempre ben informati - né si affidano ciechi a quanto il "mediatore" riporta loro, ma con questi dialogano costantemente, si confrontano sul campo, cercano di trovare un punto d'incontro fra noto ed ignoto. Ricordano ad esempio nel racconto sui Tid del monte Corma, in Etiopia settentrionale: "Cerchiamo di spiegare ad Ato Antoine che i canoni estetici variano da cultura a cultura: così un individuo che noi giudichiamo bello, può essere considerato brutto da altri. "Gli uomini tid trovano attraenti le loro donne; nella deformazione delle labbra vedono un elemento di attrazione sessuale". Ato Antoine non sembra convinto. (...). Siamo stupiti dalla loro sensibilità estetica, ma il nostro giudizio non collima con quello di Ato Antoine, che continua a considerare i tid degli "extraterrestri", degli "alieni" di un altro mondo: gli ricordano quelli visti nei film di fantascienza proiettati ad Addis Abeba".
Secondo passo: la capacità critica di distinguere umano e umanitarismo, rara negli anni post-coloniali, ma ancor più oggigiorno, in cui la retorica del migrante senza più alternative ottenebra la straordinaria complessità africana. Basti il caso della Liberia, che proprio nel 2022 festeggia i primi 200 anni dalla fondazione: il richiamo ai diritti universali dell'uomo, eredità illuminista di un governo che ha ancora un piede legato ai filantropi americani, cancella spensieratamente le visioni-di-mondo di civiltà differenti, per giustificare il suo cammino zoppo con la trita giustificazione dei politici corrotti o della sempre comoda crisi climatica. Angelo e Alfredo, invece, non solo fanno la storia, ma la conoscono bene. "Gran parte della Liberia è coperta da una foresta rigogliosa e umida. In queste giungle abitavano popolazioni povere che, anche a causa delle difficoltà di comunicazione con la costa, erano rimaste isolate e disorganizzate. I nuovi arrivati li definirono tribesmen, considerandoli primitivi e senza cultura. Un atteggiamento razzista da parte di coloro che, per secoli, erano stati schiavi senza diritti. Diritti che vennero subito negati alla popolazione autoctona, vale a dire il 99% degli abitanti di quel territorio". (...) Ciononostante gli ex-schiavi americani diventarono i "padroni" di quel territorio".
Terzo passo. Virtù di Angelo e Alfredo è pure il coraggio di correlare etnologia ed archeologia, basandosi su prove trasversali raccolte in territori fra loro apparentemente non comunicanti. Una metodologia tanto feconda quanto eretica, sperimentata dal grande ricercatore tedesco Leo Frobenius nel Golfo di Guinea a inizi Novecento, per essere presto abbandonata dai miopi specialisti in cattedra. Emblematica, in tal senso, la descrizione della caccia all'elefante da parte dei "pigmei" del Gabon, che nel 1961 permette loro di acquisire una conoscenza rivelatasi utile nel decifrare i graffiti del Sahara oltre 20 anni dopo. "Il cacciatore, raggiunto l'elefante, scivola con estrema cautela sotto il ventre del pachiderma. Una massa di carne, ossa e muscoli di sei tonnellate lo sovrasta. Con movimenti precisi, appoggia saldamente sul terreno la parte terminale della lancia, sollevandola poi verticalmente fino a sfiorare, con la punta, il ventre dell'elefante. Sente i brontolii dell'intestino e il ritmato soffio della proboscide. L'animale non si è accorto della sua presenza. (...) Alza il braccio sinistro: è il segnale atteso dai cacciatori. Gli uomini alle spalle dell'elefante escono dall'erba lanciando grida acutissime. Il pachiderma spaventato si gira pesantemente verso la fonte del rumore ruotando su se stesso e, così facendo, si piega leggermente sulle zampe posteriori. La lancia acuminata penetra profondamente nel corpo, mentre il capocaccia, con un balzo, abbandona la pericolosa posizione. (...) Qualche anno dopo rivedremo questa scena nell'Uadi In Galguien, incisa con incredibile realismo da un cacciatore vissuto migliaia di anni fa".
Ed è proprio qui che i due grandi esploratori, pur avendoci lasciati di nuovo per una spedizione ancor più remota, ci chiedono oggi di far campo: nessuna nuova conoscenza è in grado di manifestarsi senza una concreta presa di distanza nello spazio e nel tempo. Partire alla ricerca significa immancabilmente perdersi nel ritorno, in quel groviglio di dati, frammenti, scie e memorie che solo la sedimentazione riuscirà poi a ordinare. Almeno per un po'. Insegnamento che dovrebbe metterci ben in guardia dalle pseudo forme di esplorazione oggi affidate alle tecnologie di realtà aumentata e virtuale, al subdolo regno del metaverso. Alla comodità irresponsabile del remoto. All'economicizzazione del rischio. All'astuta ideologia del "non avere altra scelta". Proprio come le vie della conoscenza, le strade si disegnano da sé. Non hanno bisogno di GPS o droni per riconoscersi "vere". Perché la verità dell'esploratore è sotto sotto quella che continueremo a rivedere nel luccichio degli occhi di Angelo, così come di Alfredo, in sella alla loro Vespa: un luccichio ironico ma fanciullesco, incredulo eppur ammaliato. Lo sguardo sfingico dei filosofi delle sabbie.
Alberto Caspani
Casa degli Esploratori