
La Corea fra Yin e Yang
Protesa fra Cina e Giappone come l'ago di una bilancia, la penisola coreana non può che attraversare periodicamente nuove fasi di oscillazione. Comprenderne le ragioni, per l'Occidente, resta ancora un mistero


Converrebbe forse meditare un poco davanti al Taegeuki, la bandiera scelta nel 1897 per rappresentare il Paese ancora unificato: è un ottimo esercizio di umiltà del pensiero, nonché una pratica consigliata dai maestri taoisti qualora ci si incammini sulla via della saggezza. Al centro del campo bianco non è stata inserita un'immagine dominante, come vorrebbe la tradizione degli Stati con un forte governo centrale, ma il simbolo delle contrapposte forze cosmiche Yin e Yang: un cerchio che pare ruotare costantemente su se stesso, alla perenne ricerca di un equilibrio fra la sua metà blu e la sua metà rossa. Ai quattro angoli sono stati poi inseriti i trigrammi del Libro cinese dei Cambiamenti (I Ching), con cui vengono rappresentati i processi di formazione del cielo (Kun), del fuoco (Yi), dell'acqua (Kam) e della terra (Kon). E' una bandiera capace di raccontare perfettamente la travagliata storia della penisola, costretta a fare i conti con vicini sempre troppo ingombranti, benché difesa per quasi cinque secoli dalla dinastia Joseon. Sino a quando non pende troppo da una parte o dall'altra, il Paese può contare su pace "immacolata": non a caso il bianco è il colore che tenta di rischiarare la mente di chi osserva la bandiera. Una forza, però, tende sempre a spingere la Penisola nel verso opposto dell'altra, finendo per alterare l'equilibrio fra gli elementi che reggono il mondo. Lunghi periodi senza conflitti non sono certo mancati nell'antichissima storia della Corea, che vanta oltre 5mila anni d'ininterrotta civiltà, ma sono stati garantiti quasi sempre con uno stratagemma simile a quello di un fiore: l'Hibiscus Syriacus. I suoi petali, delicatamente rosati, fingono infatti di appassire di fronte all'attacco degli insetti o della ruggine vegetale, per riprendersi il giorno dopo in modo del tutto inaspettato. Così fa la Corea, avendo sempre preferito ripiegare su se stessa anziché cimentarsi in sanguinose guerre, meritandosi già nel XVII secolo l'appellativo di "Regno Eremita". Il Mugunghwa, come i coreani usano chiamare il fiore, è perciò considerato l'anima stessa della penisola a cavallo del 38° parallelo, pronta a richiudersi dietro profumati petali, ma capace ogni anno di trasformarsi anche in un accogliente tappeto di ibisco siriaco, soprattutto fra luglio e ottobre.

La sua filosofia, purtroppo, è in netto contrasto con le esigenze della globalizzazione e spiega le diverse risposte messe in campo dalla Corea del Nord e del Sud: la prima, dichiaratamente socialista eppur più tradizionale nello stile di vita, è convinta di poter fare a meno del mondo, la seconda mira a sedurlo con la sua potenza economica. In realtà, entrambe le nazioni potrebbe imboccare una via del tutto nuova, sviluppando semplicemente una consapevolezza maggiore circa le proprie radici. Oltre a ospitare una delle piazze della medicina orientale più antiche della Terra, dove fiori, piante e radici di ginsen rosso hanno fatto per millenni la fortuna della città meridionale di Daegu, la Corea conserva tracce di una civiltà megalitica le cui ramificazioni si stanno palesando negli angoli più remoti del globo: dalle foreste del Borneo alle coste dell'Abkhazia sul Mar Nero, dove gli archeologi continuano a scoprire allineamenti di dolmen che mappano i misteri del cielo e sono sempre pronti a rimandare a un centro nevralgico presente sulla Terra. La Corea, appunto, il territorio detentore del 40% del patrimonio megalitico mondiale, grazie ai sorprendenti siti UNESCO di Gochang, Hwasun e Ganghwa, nonché uno dei migliori punti terrestri d'osservazione per lo studio delle stelle. Il peso di questa grande tradizione, ancora poco studiata e conosciuta, non è bastato a riconquistarsi l'indipendenza dal giogo giapponese alla fine della Seconda Guerra Mondiale: la Penisola resta una testa di ponte troppo invitante per essere lasciata al proprio destino. Soprattutto per una potenza come gli Stati Uniti, che dal 1945 hanno bisogno di mantenere un piede sul continente asiatico per tener sotto controllo i due colossi più temuti: Cina e Russia. Come ha ben dimostrato lo storico e giornalista americano Isidor Feinstein Stone, autore di una "Storia segreta della Guerra di Corea" tenacemente boicottata negli Stati Uniti, per comprendere a fondo la divisione della Penisola non bisogna guardare a nord, bensì a sud: lasciare il filo spinato e le torrette d'avvistamento che si snodano lungo i 248 chilometri della Zona Demilitarizzata al confine fra le due Repubbliche, per scendere sino all'isola di Jeju.

Nata da un'eruzione vulcanica circa 2 milioni di anni fa, ha sviluppato una cultura antichissima alla quale vengono ricondotte le radici più autentiche della civiltà coreana. Qui emersero dal sottosuolo - attraversato da un sistema di tunnel lavici Patrimonio mondiale dell'Unesco - i tre re dai quali discesero i primi abitanti del regno Tamna; qui si sviluppò il misterioso culto dei Dol Hareubang, le imponenti statue basaltiche a testa di fungo che da tempi remoti scrutano il mare e sono oggi il simbolo di Jeju; qui ancora approdò nel 1653 il primo europeo che fece conoscere la Corea in Occidente, il commerciante olandese Hendrik Hamel; da qui cominciò la resistenza coreana all'occupazione giapponese nella Seconda Guerra Mondiale, grazie al coraggio delle Haenyeo: donne sub che, sin dai tempi paleolitici, cacciano in apnea con una tecnica trasmessa di generazione in generazione e custodiscono i segreti di un peculiare sciamanesimo tutto al femminile; qui, infine, si consumò fra l'aprile del 1948 e il maggio del 1949 una delle più efferate stragi d'innocenti, la cui unica colpa fu quella di volersi opporre alle elezioni che avrebbero sancito la divisione della Corea per mano americana. Furono assassinati dall'esercito sudcoreano in 20mila, forse addirittura in 30mila; altri 40mila furono costretti a fuggire in Giappone, accusati di essere pericolosi comunisti in combutta col governo filosovietico del nord. L'evento segnò, e segna tuttora indelebilmente, la coscienza unitaria coreana, avendo fatto precipitare la situazione politica della penisola sino alla terribile guerra del 1950-53: un conflitto irrisolto che vide sganciare 177mila tonnellate di bombe americane sull'intero territorio coreano, più di tutte quelle lanciate nel secondo conflitto mondiale. Già all'epoca il Generale Douglas MacArthur avrebbe voluto utilizzare la bomba atomica per mettere definitivamente a tacere la minaccia comunista, ma la sua condotta oltranzista finì per costargli il comando delle truppe dell'Onu. Fortunatamente. L'armistizio firmato poi dai belligeranti ribadì la divisione d'influenza scaturita dagli accordi fra Mosca e Washington nel 1945.

Oggi sembra proprio che gli Stati Uniti vogliano riaprire i giochi, ricorrendo agli stessi terribili mezzi: sull'isola di Jeju è stata inaugurata il 26 febbraio 2016 una base civile-militare fortemente sponsorizzata dagli Usa (nonostante la campagna d'opposizione "Save Jeju Now"), dalla quale possono essere sferrati attacchi nucleari sia verso la Corea del Nord, sia in direzione della Cina e della Russia, i due veri obiettivi della crisi coreana. Sul territorio conteso della Penisola è infatti in corso da anni un confronto economico che ha visto gradualmente gli americani scivolare all'angolo, non solo per la dinamicità del mercato cinese, ma proprio per l'intraprendenza dell'ormai quasi "ex alleato" sudcoreano: un paese-sistema capace di competere da solo nel mondo, grazie alla politica vincente degli "chaebol", i conglomerati industriali oggi rappresentati in prima linea da Samsung, Hyundai, LG o Daewoo. Con le loro politiche filostatali e protezionistiche - ha illustrato molto chiaramente il ricercatore Andrea Goldstein nel saggio "Il Miracolo Coreano" - sono riusciti a risollevare il Paese dalle periodiche crisi di mercato, senza mai ricorrere alle formule neoliberiste suggerite da Washington o dal Fondo Monetario Internazionale. La Corea del Sud è però un boccone troppo succulento e imprevedibile, in particolare se dovesse portare a termine il percorso di unificazione con la Corea del Nord. Collaborazione politica ed economica che, sino ai primi anni duemila, stava dando segnali incoraggianti. Proprio allora gli Stati Uniti di Bush Junior, spalleggiati dalla seconda storica potenza con mire egemoniche sull'area, il Giappone, hanno optato per la scelta con cui in passato hanno dettato legge: il riarmo, il rafforzamento dei presidi militari contro "l'asse del male", chiudendo gli occhi di fronte ai 2 milioni e mezzo di vittime della guerra di Corea e alle atrocità che ne fecero il banco di prova per il Vietnam. La storia della Corea può però insegnare al mondo che, oltre il mercato, c'è ben più in gioco. Molto di più: addirittura, forse, la risposta alle origini della civiltà sulla terra. Per ora, comunque, la Regione Lombardia si è accontentata di un risultato già soddisfacente: un accordo di collaborazione culturale ed economica con la città di Seoul, firmato a Milano lo scorso settembre.
Alberto Caspani