In memoria dei fratelli Castiglioni

02.05.2022

Autore di numerosi testi di carattere storico e geografico, Alessandro Pellegatta ha ricordato i due grandi esploratori di Varese in un incontro di approfondimento svoltosi recentemente a Macherio, in Brianza. Riportiamo l'intero intervento, excursus nell'affascinante storia dell'esplorazione italiana

Dei fratelli Castiglioni mi sono occupato in un mio recente volume intitolato 'Esploratori lombardi' (2020). Nati a Milano nel 1937 ma varesini di adozione, i Castiglioni ci riportano al fascino dei primordi del 'romanticismo esplorativo ottocentesco' di Gaetano Osculati e Felice De Vecchi proprio per quella loro particolare attitudine a superare schemi e barriere, spingendosi oltre il limite, senza mai preoccuparsi troppo delle convenzioni e delle regole accademiche.

I fratelli Castiglioni, lungo i loro sessant'anni di esperienza esplorativa, hanno saputo battere le piste degli esploratori italiani dei primordi in Africa, quali Giovanni Miani, Carlo Piaggia e Romolo Gessi, descrivendo territori e popoli oggi in parte scomparsi. Alfredo e Angelo purtroppo ci hanno lasciato, ma il CeRDO (Centro di Ricerche sul Deserto Orientale), il Museo Castiglioni di Varese e le attività archeologiche ad Adulis, la Pompei eritrea, continuano senza sosta nelle loro attività.

Nel citato volume ho voluto ricordarne la poliedrica esperienza esplorativa, focalizzandomi in particolare sulla loro permanenza in Equatoria, Sudan, Nubia ed Eritrea, che ha portato alla riscoperta (1989) della mitica Berenice Pancrisia e all'avvio della ricerca archeologica ad Adulis (Eritrea), tuttora in corso. Come vedremo, dei Castiglioni va ricordata anche un'ardita esplorazione nell'Alto Orinoco venezuelano del 1974, che ho citato in un altro volume del 2021 (Amazzonia. Esploratori italiani ai confini del mondo).

Alfredo e Angelo Castiglioni hanno lasciato un grande patrimonio, materiale e immateriale, che va preservato e valorizzato per le future generazioni. Questo è solo un piccolo contributo per non disperdere la loro memoria esplorativa e la loro testimonianza umana.

L'Africa (che non c'è più) dei fratelli Castiglioni
Laureati in economia e commercio, nell'agosto del 1957 i Castiglioni raggiunsero con due Vespe il Marocco, il Sahara spagnolo e la Mauritania, attratti irresistibilmente dal fascino del Continente Nero. L'anno successivo si imbarcarono sul mercantile General Mangin diretto verso l'Africa Occidentale e il primo scalo fu per loro il porto di Algeri; lì conobbero momenti della lotta di liberazione algerina. Forzando con l'incoscienza giovanile il blocco dei militari francesi, entrarono infatti nella Casbah. Inconsciamente anticiparono l'invito che in seguito rivolse al mondo Léopold Sédar Senghor, il grande poeta e presidente senegalese (vd. nota 1 a fondo pagina).

Nacquero così i primi film e i documentari realizzati su pellicola 16mm, 7291, della Kodak. Un'Africa ancora sconosciuta rivelava i suoi enigmi attraverso le loro immagini e i loro libri, scritti in collaborazione con Giovanna Salvioni, docente all'Istituto di Etnologia e di Antropologia all'Università Cattolica di Milano.

Dopo questi viaggi pionieristici, i fratelli Castiglioni estesero le loro missioni etnologiche a molti altri Stati dell'Africa Occidentale, Equatoriale e Orientale (2), effettuando spedizioni con tutti i mezzi di trasporto disponibili al fine di raggiungere le etnie più isolate e lontane dalla cosiddetta 'civiltà' e che, propria a causa di questa loro lontananza, avevano miracolosamente conservato la propria cultura e identità.

Davanti ai rapidi mutamenti economico-sociali africani, furono tra gli ultimi testimoni della decadenza di un mondo arcaico. Sempre alla ricerca del mondo africano delle origini, affrontarono tra il 1960 e il 1965 alcune difficili missioni lungo l'Alto Nilo Bianco, in particolare nella regione di Equatoria e del Sudan meridionale. Vollero intenzionalmente ripercorrere gli itinerari battuti nell'Ottocento da Carlo Piaggia tra le tribù antropofaghe dei Niam-Niam (Azande), da Romolo Gessi lungo il Bahr el-Ghazal, il mitico Fiume delle Gazzelle, da Gaetano Casati in Equatoria e da Giovanni Miani (chiamato il Leone Bianco dagli indigeni, per via della sua lunga barba canuta).

Con profonda meraviglia i fratelli Castiglioni si accorsero che tra le popolazioni nilotiche dei Dinka, Mundari, Nuer, Shilluk non era cambiato molto rispetto alle descrizioni degli esploratori italiani dell'Ottocento. Nel 1963 risalirono con un battello fatiscente il corso dell'alto Nilo Bianco, soggiornando per tre mesi presso i Mundari, un'etnia isolata tra gli immensi acquitrini del Sudd alla confluenza del citato Bahr el-Ghazal; questo popolo, per difendersi dalle zanzare, utilizzava gli stessi mezzi descritti da Miani e da Gessi, bagnandosi con l'orina dei bovidi e utilizzando la cenere dello sterco bruciato dei loro animali. I Castiglioni documentarono scene di caccia senza tempo, e in particolare quella alle giraffe, documentando tecniche che circa vent'anni dopo ritroveranno nei graffiti delle pareti dell'Uadi Mathendush nel deserto libico.

Prima di scrivere le proprie esperienze, i fratelli Castiglioni dovettero viverle. E nel viverle dovevano realizzare e praticare quella ricerca etnoantropologica che fu all'origine lo scopo principale del loro viaggiare. Il loro percorso di avvicinamento alla diversità culturale non fu lineare; fu originato da piccoli avanzamenti, fermate e arretramenti. Il cammino si presentava tutt'altro che agevole, vista la grande diversità della cultura africana e la complessità dei suoi riti, ma furono gli sprazzi nella comprensione che li fecero avanzare giorno per giorno, superando ostacoli, rischi e fatiche.

Lo spirito che animava i fratelli Castiglioni non era tuttavia quello di fondare stazioni commerciali; erano bensì spinti da quella stessa curiosità e attenzione che aveva portato il Piaggia a testimoniare la positività di questi uomini primitivi, in netta controtendenza rispetto alle teorie razzistiche e civilizzatrici che avrebbero costituito l'alibi per lo scramble for Africa e la colonizzazione politica del Continente Nero (3). Come disse infatti Piaggia:

"[...] l'uomo nasce buono e questi poveri negri primitivi non hanno guasto il sangue dai vizi della nostra civiltà. Sono migliori di noi. Le loro idee di morale sono bellissime perché naturali"

Così come in Pasolini, anche nei fratelli Castiglioni nasce e si sviluppa la consapevolezza della ineludibile distruzione del vecchio mondo africano davanti all'inarrestabile avanzata di un neocapitalismo sempre più feroce e aggressivo, nonché di un neocolonialismo economico e culturale che, sostituendosi al vecchio colonialismo politico dell'Ottocento, avrebbe presto riportato i giovani Stati indipendenti africani sotto il giogo delle multinazionali occidentali.

Così come in Pasolini, l'Africa per i fratelli Castiglioni non rappresenta il simbolo di una radicale alterità, cui contrapporre le istanze civilizzatrici dell'Occidente, bensì un elemento essenziale della storia umana che, resistendo ai vortici della cultura consumistica, può ancora custodire valori ineliminabili e la cui conservazione appare indispensabile per cercare di ri-orientare lo sviluppo epocale della presenza umana sulla Terra.

Lungo questi itinerari esplorativi ispirati dalla curiosità e dell'attrazione, nascono quei sentimenti di appartenenza comune ai destini umani che trasformeranno l'esperienza dei fratelli Castiglioni nell'allegoria di un profondo impegno civile e umanitario. Quello stesso impegno che spinse Piaggia a descrivere i Niam-Niam (Azande) per ciò che erano realmente.

L'Amazzonia e i fratelli Castiglioni

"[...] Ogni anno [...] nel bacino del Rio delle Amazzoni viene distrutta (col fuoco, con le ruspe, con le motoseghe) una superficie di foresta equivalente a quella della Repubblica Austriaca. Ogni minuto decine di ettari di quella mirabile e intatta basilica verde vengono divorati; dai fazendeiros, certo, dai garimpeiros, dai madeireiros ma anche dall'ignoranza, dall'avidità, dagli interessi ciechi delle grandi multinazionali del legno, dei minerali, e degli hamburger"

Così Fulco Pratesi cominciava la sua presentazione al volume di Alfredo e Angelo Castiglioni intitolato Ultime oasi nella foresta pubblicato nell'ottobre del 1989. Sono passati oltre trent'anni da quel libro e, anno dopo anno, la situazione dell'Amazzonia non è sicuramente migliorata. Se è vero che, secondo un racconto mitico degli indios, gli alberi sostengono il cielo, e se è altrettanto vero che, qualora tagliati, tutto il firmamento cadrà sulla terra, il genere umano sta rischiando davvero grosso. Nonostante questa catastrofe imminente, il genere umano continua però a essere affetto da una "grande cecità", come l'ha definita brillantemente Amitav Ghosh in un suo saggio sulle variazioni climatiche.

Nel 1974, quando il loro curriculum esplorativo era già molto significativo, i fratelli Castiglioni decisero di intraprendere una nuova esperienza. Non si trattava dell'Africa ma proprio dell'Amazzonia. Cosa li spingeva nell'immensa foresta? La stessa tensione spirituale e morale che li aveva portati in Africa, cioè quella di concorrere alla sensibilizzazione sulla sorte drammatica cui gli Yanomami, come gli altri popoli del bacino amazzonico, stavano andando incontro, minacciati nella loro sopravvivenza dalla distruzione sistematica dell'ambiente che da sempre li proteggeva (4). Quindici anni dopo, da questa esplorazione nacque il libro intitolato Ultime oasi nella foresta (5), proprio lo stesso anno in cui i fratelli Castiglioni fecero una straordinaria scoperta nel deserto nubiano-sudanese: dopo secoli di abbandono ed oblio, avevano ritrovato la mitica città di Berenice Pancrisia.

I due esploratori vollero vivere un momento importante della loro lunga e importante esperienza, penetrando nel profondo dell'Amazzonia venezuelana. Era un'epoca che sembra ormai distante anni luce, se si analizzano le sconvolgenti trasformazioni che abbiamo vissuto negli ultimi anni e che stiamo ancora vivendo. Entrarono in contatto con i Mahekodo-theri (o Makekodo-teri), uno dei gruppi locali Yanomami sopravvissuto nella regione dell'Alto Orinoco.

Partirono da Caracas con un piccolo aereo postale e sbarcarono a Puerto Ayacucho, la capitale dello stato venezuelano di Amazonas. La città fu fondata il 9 dicembre del 1924 ed è diventata capitale di stato federale nel 1928. Sorge sulla riva destra dell'Orinoco, in prossimità della frontiera con Colombia, il cui territorio si estende sulla sponda opposta del fiume. Da lì, utilizzando un bonghito (6), iniziarono a risalire l'Orinoco, e dopo diversi giorni di viaggio controcorrente raggiunsero un villaggio di Mahekodo-theri. Con loro c'era un giovane indio che parlava qualche parola dell'idioma Yanomami.

In quell'area il Venezuela ha creato ben cinque parchi nazionali per cercare di salvaguardare l'ambiente e le numerose comunità indigene che ci vivono. Non è semplice visitare questi luoghi, meta agognata di antichi esploratori; molti posti come il Cerro Autana, sacri agli indigeni, si raggiungono solo dopo due giorni di navigazione. È per questo che vengono proposti ai turisti lodge vicino alla città, dai quali possono avere un assaggio di avventura, sebbene un po' edulcorata.

Ma i Castiglioni non sono turisti e sono abituati alla durezza della vita esplorativa. Una vita spartana, senza fronzoli, sempre attenta all'essenziale, dove l'imprevisto e i pericoli sono sempre dietro l'angolo. Non vanno nei lodge ma vivono nei villaggi, a stretto contatto con le popolazioni indigene che studiano da decenni. Non sono turisti mordi e fuggi. Arrivano in punta di piedi, cercano di farsi accogliere e benvolere, vivono i ritmi degli indigeni e mangiano le loro pietanze.

Inoltre, sono sempre molto pazienti, e aspettano il momento giusto per scattare le foto e filmare. Da questa esperienza Angelo Castiglioni tornerà in Italia dimagrito di almeno quindici chili: quando al suo rientro lo rivide il padre, voleva farlo ricoverare in ospedale tanto appariva provato. Nell'Alto Orinoco è posizionata l'importante riserva della biosfera di Casiquiare, individuata dall'Unesco nel 1993, e che consiste in un'area della superficie di 8,4 milioni di ettari circa. Il nome di questa riserva si basa sul fatto che qui si trovano le sorgenti più importanti del Venezuela e gli affluenti iniziali del fiume Orinoco, il corpo idrico principale e più abbondante.

La Riserva di Casiquiare è una delle aree di foresta tropicale con minore intensità di intervento. Nonostante le carenze nelle informazioni di base sulla biologia e l'ecologia, è evidente un alto livello di diversità biologica ed endemismo. Esistono infatti non meno di 4mila specie di piante vascolari con circa 500 specie endemiche, che finora non sono state completamente inventariate. La maggior parte della popolazione è di origine Yanomami, il cui territorio si estende fino al confine con il Brasile. Occupano la terra in modo casuale, fino a quando le risorse nell'area non sono esaurite o la loro popolazione cresce più di quanto le risorse siano in grado di soddisfare.

Quello che fece rimanere stupefatti i fratelli Castiglioni era l'imponente muraglia vegetale che si presentò davanti ai loro occhi. Avevano conosciuto negli anni, oltre ai deserti e alle savane, anche le foreste africane. Ma la foresta pluviale dell'alto Orinoco era davvero impressionante: era alta decine di metri e si estendeva per migliaia di chilometri. Il termine foresta pluviale fu coniato alla fine del XIX secolo dal botanico tedesco Andreas Schimper. La mancanza di ritmi stagionali, dovuta alla posizione geografica delle foreste e l'elevata umidità favoriscono una vegetazione molto rigogliosa. Le caratteristiche ricorrenti della foresta pluviale sono essenzialmente: alta biodiversità animale e vegetale; alberi sempreverdi; sottobosco buio e spoglio, intervallato da radure; scarsità di lettiera (materiale organico che si deposita al suolo); abbondanza di liane e di epifite (cioè piante che vivono su altre piante senza esserne parassita) legnose ed erbacee; presenza di rampicanti "strangolatori" (es. Ficus spp.); presenza di buttresses (cioè larghe costole alate che si trovano alla base dei tronchi) e radici a 'trampoli' negli alberi che vivono in zone spesso allagate.

Il clima immutabile che favorisce la crescita delle foreste pluviali è tipico della fascia equatoriale, dal bacino amazzonico in America meridionale a quello del Congo in Africa e poi in Indonesia, Borneo e in gran parte del Sud-Est Asiatico. Tra queste la foresta amazzonica rappresenta circa un terzo di tutte le foreste tropicali e la maggior riserva d'acqua dolce del pianeta. Le foreste pluviali tropicali, che coprono soltanto il 10% della superficie terrestre (1,2 milioni di ettari) ospitano in realtà più del 70% di tutte le specie viventi sul pianeta. In una foresta pluviale tropicale si trova infatti la più grande varietà di piante e animali esistente in natura. Solo questo dato dovrebbe farne dei territori strategici, un bene comune per tutta l'umanità. La realtà, purtroppo, è ben diversa. Le foreste tropicali sono state sottoposte, soprattutto nel XX secolo, a un intensivo taglio e alla conseguente deforestazione, riducendo la superficie delle foreste quasi della metà. Questi spazi vergini sono chiamati anche i polmoni della Terra, perché parte dell'ossigeno del pianeta viene prodotto proprio nella foresta pluviale tropicale. Distruggendo questa foresta, è come se annientassimo l'ossigeno che dobbiamo respirare.

Risalendo l'imponente via d'acqua dell'Orinoco, i fratelli Castiglioni intravidero tracce di sentiero sulle sponde. Le imboccarono penetrando in un labirinto vegetale, camminando tra alberi alti oltre quaranta metri, giganteschi ombrelli privi di rami fino ai due terzi della loro estensione e che trattenevano umidità e calore. In quell'atmosfera calda e umida, presto cominciarono a sudare e a essere molestati dagli insetti.

Un'esperienza analoga i fratelli Castiglioni avevano già condotto nel 1961 nella foresta pluviale africana, nel sud del Camerun e nel Gabon, quando entrarono in contatto con i pigmei Babinga (che oggi, purtroppo, si sono praticamente estinti) accompagnati da guide bantù. All'improvviso apparve il villaggio dei Mahekodo-theri, che consisteva in uno sciapuno (sciabono, xapono), cioè uno spazio circolare delimitato da una tettoia realizzata con rami e foglie e sorretta da robusti pali, ai quali gli indios legano le amache. In quel riparo collettivo venivano ospitati un centinaio di individui. Sembrava un'oasi nella foresta, in quanto era stata ricavata tagliando gli alberi e creando una raduna circolare in cui si svolgeva la vita della comunità.

Varcato il recinto e fatti pochi passi, i fratelli Castiglioni si sedettero per terra, mentre gli indios li guardavano sorpresi. Gli uomini avevano archi e lunghe frecce, e rimanevano in silenzio. Ancora una volta fu la curiosità e la spontaneità dei bambini che contribuì a superare quell'impasse e a favorire il contatto tra due mondi tra loro lontani: cominciarono a toccare i vestiti, i bottoni e a infilare le mani nelle tasche di Alfredo e Angelo. Poi si avvicinarono anche gli uomini del villaggio.

C'è una scena del documentario, filmato da Angelo, dove Alfredo è letteralmente circondato dai bambini curiosi che gli toccano l'orologio, cercano di spogliarlo, gli prendono il fazzoletto. Uno dei bambini più svegli si impadronisce del coltello a serramanico di Alfredo, che apre con la massima disinvoltura. Finito il gioco della conoscenza e dell'apprendimento, i bambini restituiscono il maltolto. Un metodo utilizzato dai fratelli Castiglioni per farsi accettare dalle popolazioni locali è sempre stato quello di partecipare alla caccia. In Africa, quando annunciavano l'abbattimento di un bufalo o di un'altra preda di grandi dimensioni che difficilmente le popolazioni locali avrebbero potuto predare (non disponendo di armi da fuoco), era sempre una festa. Con un bufalo si sfama per giorni un villaggio intero. Ma la caccia nella semioscurità della selva amazzonica è un'altra cosa. Bisogna avere dimestichezza del sottobosco e delle sue insidie, avere sempre occhi e orecchie ben aperti per percepire ogni più flebile spostamento della potenziale preda e saper tirare con l'arco (7). Spesso si usa anche il fumo per stanare gli animali difficili da sorprendere all'aperto e che si rifugiano nelle tane: uno di questi è l'armadillo, molto apprezzato per la sua carne bianca ma molto difficile da catturare, in quanto si nasconde in lunghi e profondi cunicoli sotterranei con più uscite.

In realtà i fratelli Castiglioni scoprirono che la caccia degli uomini copriva solo il 15% del fabbisogno alimentare giornaliero e che erano le donne a dover assicurare la restante parte di tale fabbisogno attingendo all'enorme "magazzino" vivente della foresta, o coltivando piccoli appezzamenti di terra. Le donne raccoglievano di tutto, tra cui enormi ragni neri che trasportavano in involucri di foglie di banana. Si trattava dei famosi "ragni scimmia" (Phoneutria nigriventer) con dimensioni di 15-18 centimetri di diametro, dotati di un veleno capace di uccidere con un morso un uomo per arresto cardiaco o asfissia. Quando sono irritati, questi ragni agitano le loro lunghe zampe disperdendo i peli, che sono pericolosi e che causano danni in chi li respira. Le donne dei Mahekodo-theri, con grande abilità, bloccarono le zampe anteriori dei ragni per evitare di essere punte. Poi li misero a cuocere sulla brace, aprendone il midollo bianco, molto proteico, che mangiarono con pezzi di banana arrostita.

Analogamente al loro approccio nei confronti delle popolazioni africane, i fratelli Castiglioni vogliono documentare con la loro spedizione soprattutto la vita degli Yanomami, perché sanno che sono costantemente minacciati. Sanno che i fazendeiros (i latifondisti e proprietari terrieri), appoggiati dai governi locali, stanno guadagnando spazi via via crescenti dove deforestare selvaggiamente per impiantare coltivazioni intensive o ospitare allevamenti di bestiame. Spesso la terra, una volta spogliata del suo manto vegetale, si rivela tuttavia scarsamente produttiva.

Accanto a loro operano anche i madeireiros (commercianti di legname), che abbattono migliaia di alberi per alimentare un business sempre più fiorente, e i garimpeiros (cercatori d'oro e di pietre preziose), che inquinano i fiumi del bacino amazzonico con massicce quantità di mercurio utilizzate per separare l'oro dalla sabbia aurifera e riversate poi nelle acque senza ritegno. A tutto ciò, alla sistematica aggressione alla foresta vergine si sommano le azioni degli erbicidi, dei defolianti e degli incendi, l'azione dei grandi bacini idroelettrici, delle grandi opere infrastrutturali, come ad esempio la Transamazzonica, e delle miniere a cielo aperto.

Nel 1973, l'anno precedente all'avvio della spedizione dei fratelli Castiglioni nell'Alto Orinoco venezuelano, era stata costruita la Perimetrale Nord, la strada che tagliava la parte sud-est del territorio degli Yanomami, che vennero colpiti con esiti disastrosi dalla scarlattina, dal raffreddore, dalla tubercolosi, dalla malaria e da malattie veneree contratte dalle squadre di disboscamento (8). Nella primavera del 1974 il Tribunale Russell II si riuniva a Roma per la denuncia del terrore in Americana Latina.

L'attacco alla grande foresta amazzonica portò all'uccisione di numerosi indios, il tutto in modo sistematico, freddo, senza troppi clamori. Iniziarono a crearsi immensi latifondi; con l'arrivo dei fazendeiros scomparivano i popoli indigeni. Stava cominciando a prendere piede uno sfruttamento accelerato e irrazionale delle ricchezze minerarie e forestali del bacino amazzonico da parte di giganteschi gruppi economici internazionali, per nulla preoccupati della salvaguardia della natura e delle popolazioni vissute per secoli indisturbate nella foresta. L'escalation di questa terribile devastazione è stata narrata da Ettore Biocca (9).

A metà degli anni Settanta del Novecento cominciò l'assalto all'oro, alla cassiterite e all'uranio, proseguito praticamente indisturbato negli anni Ottanta e oltre. Mille atrocità sono state commesse e sono rimaste impunite, e solo di alcune è stato possibile venirne a conoscenza attraverso la testimonianza diretta dei sopravvissuti (10).

Inondare di civilizzazione l'Amazzonia. Con questo slogan, diventato uno degli Obiettivi Nazionali Permanenti del Brasile, alla distruzione della foresta vergine seguì la creazione delle fazendas, ma l'80% dei terreni amazzonici sono acidi e fiacchi, e in essi l'agricoltura si può praticare solo con metodi speciali, che richiedono strutture moderne e grandi capitali. Anche le povere masse di contadini, che vennero trapiantati a grandi distanze dai centri vitali, restarono prive dei necessari capitali e delle infrastrutture.

Torniamo all'esperienza dei fratelli Castiglioni nel villaggio dei Mahekodo-theri. Tra i frutti prediletti di questo Yanomami vi erano, oltre alle banane, quelli molto zuccherini delle pupunhas. Per scalare i tronchi difesi da lunghe spine e raccogliere questi frutti prelibati (consumati crudi o lasciati fermentare per produrre una bevanda alcolica molto apprezzata) gli indigeni utilizzavano degli ingegnosi trespoli che permettevano di tenere il loro corpo lontano dalle citate spine. Capitava comunque che i sostegni non reggessero e le cadute erano abbastanza frequenti. Lo sciapuno era sempre ravvivato dalla presenza degli animali, che catturati da cuccioli condividevano l'esistenza con gli umani. Cuccioli di scimmie urlatrici osservavano i dintorni appese alle travi, insieme a pappagalli e tucani. I cani erano in special modo utilizzati durante le battute di caccia, ed erano tenuti in massima considerazione. Addirittura, le donne offrivano il loro senso ai cuccioli di cane per l'allattamento: alla morte, i cani venivano addirittura cremati.

Si è detto della funzione delle sostanze allucinogene e dell'importanza degli sciamani nel dialogare con gli altri esseri viventi e gli spiriti. La trance allucinatoria ed onirica è sempre stato un mezzo per mettersi in contatto col mondo soprannaturale, per unirsi in comunione con gli dei, in funzione anche divinatoria, implicando da parte dello sciamano una presa di contatto diretta con il mondo del soprannaturale. Per favorire questa comunicazione con l'aldilà, vengono utilizzate sostanze allucinogene ma spesso anche suggestioni sonore, quale ulteriore risorsa per provocare un temporaneo stato di delirio onirico (11).

I fratelli Castiglioni notarono che questi Yanomami cambiavano frequentemente umore e compresero che ciò dipendeva dall'assunzione di un potente allucinogeno. In forma di polvere grigiastra veniva infatti insufflato nelle narici degli indios da un compagno che impiegava una canna speciale. Il nome di questo allucinogeno è epenà (ebenà). Il suo effetto, prodotto dalla corteccia delle piante della famiglia delle Myristicacee e probabilmente anche da funghi allucinogeni, è pressoché immediato.

Con l'inalazione dell'epenà, gli uomini cominciano a lacrimare e a perdere del muco scuro dalle narici. A seguito di essa, gli spiriti (Hekurà o Ekurà) che vivono sulle montagne e nella foresta penetrano nei corpi di coloro che li invocano. Gli uomini raggiungono uno stato di estasi ed esercitano le loro funzioni sciamaniche. Accompagnato da canti e invocazioni durante la notte, l'uso dell'epenà ha una funzione protettiva e serve anche a far fuggire gli animali della giungla amazzonica, ma soprattutto ha una funzione iniziatica. Il ragazzo che deve superare il rito di passaggio della pubertà viene sottoposto a una serie di inalazione continue; nel frattempo, deve restare solo e al buio e imparare a evocare tutti gli spiriti degli animali della foresta.

Veniamo a uno degli aspetti più misteriosi e suggestivi della cultura amazzonica, cioè proprio al culto dei morti e all'endocannibalismo. Non è un segreto che l'endocannibalismo sia stato praticato per secoli dalle popolazioni indigene dell'Amazzonia, tra cui gli Yanomami. Esso rappresenta una forma di cannibalismo svolta all'interno del proprio gruppo familiare o etnico, con lo scopo di non far disperdere le qualità psico-fisiche del defunto. In alcuni casi si può considerare endocannibalismo anche il cannibalismo verso un nemico prigioniero, in quanto, per il rituale connesso all'atto, questi viene assimilato prima del sacrificio ai componenti del gruppo in causa.

Cibarsi volontariamente di un proprio conspecifico è ancora considerato atto ripugnante e privo di qualunque logicità. È necessario, secondo la morale occidentale, amare i nostri simili, accudirli e proteggerli se necessario: il cannibale infrange platealmente tali regole e ciò lo pone in una condizione liminare, tra l'umanità e la bestialità. È questo uno dei motivi per cui il cannibalismo ha da sempre destato l'interesse e la curiosità dell'Occidente "civilizzato", che per secoli lo ha associato a forme estreme di barbarie umana, attribuendolo a uomini simili ad animali, privi delle elementari regole della convivenza sociale. Accuse di cannibalismo rivolte da un gruppo umano a un altro sono frequenti nella storia e sono ben spiegabili attraverso la paura degli "estranei" e la necessità di distinguere la propria "civiltà" dall'altrui "barbarie". In realtà il fenomeno appare complesso e carico di un'alta simbologia, conosciuta la quale il pregiudizio verso questa usanza "barbara" e "ripugnante" tende a cadere.

L'opera di Ewald Volhard ha pertanto contribuito in maniera decisiva a collocare il fenomeno cannibalico all'interno di un più ampio contesto simbolico e religioso, scartando l'idea di una ipotetica origine primitiva e selvaggia, e distruggendo così il mito del cannibalismo che si configurava come una forma estrema di razzismo e paura dell'altro, del diverso da noi, che spingeva ad attribuire tale pratica, spesso in maniera del tutto fantasiosa, a popolazioni lontane nel tempo e nello spazio e quindi facilmente etichettabili come barbare. Si è oggi ben compreso che "[...] l'orizzonte cannibale [...] q un elemento costitutivo della cultura, di tutte le culture in diverso grado. A questo titolo, q produttore di pratiche sociali, culturali, politiche e religiose e si manifesta nelle forme più varie: il mito, il racconto, l'attività artistica, le produzioni inconsce, l'espressione amorosa, la manifestazione delle identità, i simboli religiosi, le relazioni di potere, le rappresentazioni del corpo e della malattia, lo spazio della parentela" (12). Così come Ermanno Stradelli seppe cancellare l'alone del pregiudizio demoniaco con cui i missionari avevano etichettato il mito dello Yuruparí, anche i fratelli Castiglioni riuscirono a penetrare nella grande simbologia dei rituali dell'endocannibalismo dei Mahekodo-theri.

Alfredo e Angelo assistettero a uno dei rituali più sacri e sconvolgenti della cultura Yanohama: la frantumazione e la polverizzazione delle ossa dei defunti, recuperati da precedenti cremazioni e custodite in apposite ceste. Gli uomini lavoravano in silenzio, pestando i resti mortali dei loro antenati in appositi mortai dipinti. Le ceneri, in seguito, vennero mischiate a pappa di banane, e venivano consumate da tutto il villaggio durante la festa del Rehao, la cerimonia più importante. Il tal modo, il ricordo e la presenza del defunto si perpetuava e si dava pace alla sua anima, che iniziava il suo cammino nel paese dei morti.

I fratelli Castiglioni corsero anche qualche rischio nel riprendere quelle immagini. Pur essendo stati ben accolti da quella comunità, all'improvviso gli uomini si mostrarono cupi in volto, segnale inequivocabile che quel rituale era troppo sacro e inavvicinabile per essere vilipeso dalla presenza di estranei. Si allontanarono perciò velocemente, onde non dissacrare la cerimonia. Era l'ultimo giorno della loro permanenza in quella remota comunità. Il giorno dopo ridiscesero il grande fiume Orinoco.

Nel 1974 i due fratelli hanno fatto un viaggio straordinario nello spazio e nel tempo della cultura Yanomami. Ci hanno lasciato un bellissimo volume, un documentario toccante ma soprattutto una testimonianza preziosa di questa "preistoria dell'umanità" che rischia di scomparire per sempre.

I veri barbari, i veri incivili in fondo siamo noi, uomini bianchi, interessati solo al profitto, spinti a distruggere le origini e la cultura dell'uomo per vile danaro. Siamo sempre più ignoranti e alienati e non sappiamo rispettare l'altro. Dalle pagine e dalle pellicole amazzoniche di Alfredo e Angelo Castiglioni, analogamente a quelle africane, emerge un sentimento autentico: la nostalgia per quelle loro settimane nella foresta dell'Alto Orinoco. Di solito si prova nostalgia per il passato, ma loro - nel momento in cui vissero quell'emozionante esperienza - sapevano già che quel mondo, complesso, innocente e ingenuo, era già a rischio di scomparsa.
Per questo è tanto importante coltivare la memoria. Qualcosa, forse, non è ancora andato perduto. Ma non si può mai amare e tutelare ciò che non si conosce. E la conoscenza, si sa, è molto pericolosa: rende liberi gli umani dal pregiudizio e dalla strumentalizzazione.

                                                                                                          Alessandro Pellegatta

                                                                                                       Macherio, 28 aprile 2022

NOTE TESTO

1. "[...] Uomini bianchi, andate negli sperduti villaggi della mia terra con macchine fotografiche e registratori, raccogliete e documentate la vita, le voci dei cantastorie, degli anziani, di tutti i depositari di una lunga storia legata soltanto alle loro parole, perché, quando essi moriranno, sarà come se per voi occidentali bruciassero tutte le biblioteche". Leopold Sédar Senghor fu il vate e l'ideologo della negritudine.

2. Tra i paesi visitati segnaliamo Camerun, Chad, Niger, Nigeria, Togo, Benin, Senegal, Burkina Faso, Sudan, Etiopia ed Eritrea.

3. Insieme al Piaggia operò Georg Schweinfurth, che descrisse in modo dispregiativo le popolazioni del Basso Nilo. Sfruttando le esperienze esplorative di Piaggia, notando l'abitudine dei popoli di quell'area di restare a lungo immobili su una gamba, tenendo l'altra appoggiata al ginocchio, e di camminare a passi lunghi e lentamente tra le canne, li paragonò ai fenicotteri e alle cicogne. Si soffermò inoltre sui loro lineamenti, che descrisse in termini razzistici, parlando di "[...] orride contorsioni, accresciute da smorfie, sopracciglia corte, fronte bassa", che davano alla maggioranza delle facce umane "un aspetto che non val meglio di quello delle scimmie". In SCHWEINFURTH Georg, Nel Centro dell'Africa. Tre anni di viaggi e d'avventure nelle regioni inesplorate dell'Africa Centrale, in Alla ricerca delle sorgenti del Nilo e nel Centro dell'Africa. Viaggi celebri, Fratelli Treves, Milano, 1878.

4. AAC, p.7

5. Un estratto di questa esplorazione è stato pubblicato sulla rivista Archeologia viva, gennaio-febbraio 2004, pp.64-69.

6. Tipica canoa monossile dell'Alto Orinoco.

7. In AAC, Dal diario della spedizione (La foresta, gli animali, la caccia), p.9 e ss.

8. Sulle malattie trasmesse dai bianchi, si veda EB, p.35 e ss. In esso leggiamo: "[...] Senza dubbio, sono stati i Bianchi a diffondere le più gravi malattie, dalla malaria al vaiolo, ecc. Le stesse pulci penetranti, che oggi rappresentano un vero problema sanitario in alcuni villaggi indi, sono state importate dai Bianchi, probabilmente attraverso gli schiavi negri, come si ammette sia avvenuto per il terribile parassita intestinale Necator americanus, che provoca in America l'anchilostomiasi. Non ancora bene conosciamo tutte le malattie della foresta equatoriale americana, che possono colpire l'uomo, alcune delle quali rivestono enorme interesse dal punto di vista scientifico. La lebbra· e la sifilide, molto diffuse in vaste zone del bacino amazzonico, sono presenti solo in forma sporadica tra i civilizzati del Rio Negro e dell'Alto Orinoco e sono ancora sconosciute tra gli Indi selvaggi. Non abbiamo osservato casi di schistosomiasi, né rinvenuti i molluschi trasmettitori, per cui riteniamo che questa grave parassitosi non debba rappresentare un serio problema locale [...] I tre più seri problemi sanitari sono rappresentati oggi dalle verminosi intestinali, dalla malaria e soprattutto dalla tubercolosi".

9. BIOCCA Ettore, Strategia del terrore. Il modello brasiliano, De Donato, Bari, 1974.

10. In un documento del 15 dicembre 1988 redatto dalla Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile si parla diffusamente di questo genocidio. In AAC, pp. 4-6.

11. RUGGERO Massimo, Il viaggio onirico dello sciamano nei suoi rapporti rituali con la musica, Miscellanea di Storia delle esplorazioni, 29, 2004, pp. 181-228.

12. KILANI Mondher, Cannibalismo e antropoiesi o del buon uso della metafora, in AA.VV., Figure dell'umano. Le rappresentazioni dell'antropologia, Roma, Meltemi, 2005, p. 276