Il Leviatano delle Svalbard
Grazie a "Operazione Fritham", romanzo storico della glaciologa Monika Kristensen, e al successo del film russo "Leviathan", l'arcipelago delle Svalbard restituisce oggi storie dimenticate di un Artico a un passo dall'apocalisse

Le acque dell'Artico nascondono mostri terribili, ma avvistarli fra i flutti non è per nulla facile. Né, tanto meno, riconoscere di che natura siano. Animali preistorici? Sommergibili fantasma? Spettri della coscienza? Recentemente solo due persone ne sono state testimoni, senza riuscire però a sollevare il velo in modo definitivo: la glaciologa norvegese Monika Kristensen, giunta in Italia per presentare il suo avvincente libro ambientato nelle Isole Svalbard, "Operazione Fritham", e l'attrice russa del pluripremiato film "Leviathan" Elena Lyadova, i cui occhi in lacrime hanno colto una verità tremenda al largo di Teriberka. Benché distanti centinaia di chilometri, l'arcipelago artico e lo sperduto villaggio di pescatori nella penisola di Kola, a nord di Murmansk, sono legati a uno stesso filo rosso, ma neve e ghiaccio tentano di separarne le sorti in ogni modo. Strano destino: viviamo in tempi di disgelo polare proprio mentre monta una nuova guerra fredda, incautamente cercata da chi ancora non ha imparato a rispettare il primo e originario abitante di quei territori. L'Orso.
E per una Terra che bolle non manca certo una verità che scotta; perché quando il ghiaccio si dilegua, c'è poco da arrabattarsi: quel che è fatto è fatto. Quel che è scritto è scritto. Lo sanno molto bene paleontologi del calibro di Joorn Hurum, capace di riportare in luce ben 10 inquietanti scheletri giurassici ai piedi dello Janusfjellet, fra cui l'enorme "Predator X": il più grande rettile acquatico che, 150 milioni di anni fa, dilaniava qualunque cosa si muovesse nei suoi paraggi, forte di una mascella lunga due metri e quattro volte più potente di quella del Tyrannosaurus Rex. Grazie al diritto di far propri i fossili scovati alle Svalbard, a ulteriore riprova del libero status di sfruttamento garantito attraverso il trattato internazionale del 1920, gli ospiti dediti alla "paleo-caccia" continuano a crescere. Ma i misteri a infittirsi. Paradossi del progresso. La possibilità d'imbattersi in ossa conservate ancor meglio della piccola "Ida", il più antico primate al mondo rinvenuto nel 1983 e di nuovo visibile nel Museo di storia naturale di Oslo entro la fine di quest'anno, alimenta l'illusione: pezzo dopo pezzo, il rompicapo sarà risolto. E' solo questione di tempo. Sì, ancora uno. Ancora un po'. Ancora un passo, prima di dire basta. Meglio muoversi con prudenza, in ogni caso. Gli abitanti del posto lo ripetono come un mantra, ben consapevoli dei rischi di spostarsi per un territorio dove gli incontri con gli orsi polari sono inconvenienti di vicinato, le strade un lusso concesso solo alla cittadina di Longyearbyen, mentre i voltafaccia meteorologici, al pari dei subdoli acquitrini creati dalla ritirata del permafrost, si rivelano improvvise trappole letali. E non c'è kayak, gatto delle nevi o slitta da cani che tenga.
Senza una guida esperta al fianco, persino un'innocua passeggiata sui ghiacciai può trasformarsi in un'impresa pionieristica. Occorre allora imparare a leggere ogni segno: dal volo di un'oca artica o di un lagopus maculato, alle minime variazioni di tonalità delle oltre 140 specie floreali che, fra giugno e ottobre, colorano appena il 6% di territorio libero da ghiacci. Indispensabile riconoscere una parola norvegese, essenziale un cartello in cirillico. Sicuramente divenire un buon bird-watcher, o un esperto botanico, rappresenta un primo e saggio passo per non farsi sorprendere dalle insidie del deserto artico, ma al tempo stesso per apprezzare il suo fragile ecosistema con occhio acuto: benché siano meno di 35mila i visitatori internazionali in arrivo ogni anno, e ancora pochissimi quelli in grado di contemplarne le impenetrabili notti polari fra novembre e febbraio, alle Svalbard l'uomo resta pur sempre un ospite troppo ingombrante. Se non, addirittura, rumoroso, quando indulge in festival jazz o blues per sostenere l'isolamento invernale, o si lancia in canti a squarciagola sulle fiamme innalzate per il ritorno del Sole, irrinunciabile rito di marzo durante la settimana del Solfestuka.
Consapevole della propria forza, proprio come l'orso canuto, la natura sta spesso a guardare e raramente si scompone. Anzi, quando le acque dell'Isfjord tornano ogni anno a lambire i porti della capitale o della colonia russa di Barentsburg, libere finalmente dalla morsa del ghiaccio, il paesaggio pare immutabilmente lo stesso. Si risveglia nelle medesime condizioni in cui si era addormentato. O almeno, così viene spontaneo pensare sin dai tempi in cui l'uomo ha iniziato a darne testimonianza, dapprima attraverso le descrizioni su "l'isola dalle fredde coste" contenute nella saga islandese "Svalbarði fundinn" del 1194, quindi grazie ai più meticolosi appunti lasciati dal loro moderno scopritore Willem Barentsz nel 1596, quando l'arcipelago non era altro che un ottimo approdo per la caccia alle balene e per gli arpioni dei maestri baschi.
"Huset, la casa delle riunioni di Longyearbyen costruita negli anni Cinquanta e quasi mai più toccata da allora - ricorda la Kristensen in "Operazione Fritham" - era ancora un luogo d'incontro molto popolare, sia tra i locali che i turisti. Risaliva alla stessa epoca della grande mensa di Sverdrupyen e ne condivideva la forma squadrata e la fiducia nel luminoso futuro industriale dell'arcipelago, che dopo soli dieci anni doveva rivelarsi priva di fondamento. I due edifici avevano in comune anche il colore indefinibile, un grigio verde che forse un tempo era un marrone chiaro. Erano i luoghi in cui i minatori venivano a bersi una birra e rilassarsi un po' dopo il turno di lavoro in fondo alla montagna; si trovavano nei pressi delle loro abitazioni, nella parte vecchia della città che aveva preso il nome di Einar Sverdrup, per molti anni direttore della Store Norske e morto sotto i bombardamenti dell'Isbjorn e del Selis".
Un vecchio rompighiaccio e una nave per la caccia alle foche. Questi i potenti mezzi che il fronte anti-nazista riuscì a mettere in campo nell'estate del 1942, quando si tentò di riprendere il controllo strategico delle isole. Questi i facili bersagli per i bombardieri tedeschi Focke, che in pochi minuti mandarono a picco una spedizione durata interminabili settimane, annientando 12 uomini, ferendone altri 15 e costringendo quel che restava degli 83 soldati originari a sopravvivere lungo la via per Barentsburg. Ma non era certo la prima volta che le truppe inglesi e norvegesi venivano sorprese dagli attacchi lampo del Reich. Lassù, nel Mar Artico, i tedeschi sembravano in grado di rimettere in funzione persino cacciatorpedinieri che, a rigor di logica, non potevano esser riforniti in alcun modo. Eppure continuavano a farlo. Persino durante la battaglia navale di Narvik di due anni prima. Eludendo il cordone della Royal Navy, il carburante era arrivato a bordo della famigerata Jan Wellem. Ma da dove diavolo se l'era procurato, tenuto conto che l'unica via di rifornimento nella Lapponia svedese non era ancora controllata? Anche dopo la fine della guerra, trovare una risposta negli archivi del Museo dell'Occupazione di Narvik è stato a lungo impossibile. Dove si celava mai il Leviatano nazista?
Neppure Monika Kristensen lo dice in "Operazione Fritham", benché il suo thriller storico si sviluppi fra le Svalbard e il Finnmark, la contea più settentrionale della Norvegia. Terra di poche parole, ma dagli occhi sottili, proprio come quelli dei nomadi Sami e delle loro enigmatiche pitture rupestri nel sito Unesco di Alta. Terra d'indizi e di frontiera, che per decenni si è interrogata su cosa mai avvenisse oltrecortina. A Korzunovo, trenta chilometri più a est, i ricordi degli esperimenti cosmonautici di Juri Gagarin sono tenuti in vita più dalla morsa del gelo che dagli abitanti dell'ex base dell'Armata Rossa. A Teriberka i tetti cigolano, le porte sono scardinate, i pescherecci arrugginiscono inesorabilmente sulla spiaggia. Se non fosse per le promesse di rilancio industriale, che al decaduto settore della pesca è pronto a sostituire quello dell'estrazione del gas (sfruttando un bacino off-shore potenzialmente in grado di soddisfare il 2% della domanda mondiale), gli ultimi 200 abitanti se ne sarebbero forse andati già da un bel pezzo. Eppure il film "Leviathan", ambientato in questo lembo di nostalgia sovietica, non ha semplicemente infuso nuove speranze in chi punta tutto sul turismo. Sulla bocca dei più anziani è tornato a rimbalzare un nome che si pensava sepolto sotto le macerie della Grande Guerra Patriottica: Basis Nord.
L'enigmatica, invisibile, temutissima base di appoggio della marina tedesca che gli accordi Molotov-Ribbentrop avevano garantito al Reich e attraverso cui i Tedeschi si erano riproposti di mettere in ginocchio l'Impero Britannico. La conquista della Norvegia si rivelò però più rapida del previsto e le stazioni d'appoggio ai sommergibili vennero presto spostaste sul fronte occidentale, arrivando addirittura alle Svalbard. Basis Nord, oggi perno della flotta artica russa ma allora solo un abbozzo di scalo nautico fra Teriberka e Zapadnaya Litsa, ebbe giusto il tempo per entrare nella leggenda. Eppure, se quella dannata Jan Wellem non avesse rifornito i cacciatorpedinieri nella battaglia di Narvik, forse la Norvegia avrebbe potuto tenere in scacco i Tedeschi. Probabilmente la Francia sarebbe stata risparmiata dall'invasione. E la guerra, magari...acqua passata, si dirà. Rimpianti da reduce. Ma chi conosce a fondo l'Artico, sa bene che certe verità restano indelebilmente scolpite nella mente, così come nella roccia. Il tempo congela i ricordi. Li conserva gelosamente e li condivide solo con chi ne è degno. Ha ragione Monika Kristensen, quando scrive: "Due tipi di persone vanno alle Svalbard: chi ama l'avventura e la natura estrema, o chi ha qualcosa da nascondere e dimenticare".
La città abbandonata di Pyramiden tace ancora. Avvolta nel silenzio delle sue crepe e dei suoi palazzi spettralmente vuoti, rilancia ai visitatori le domande su quel che fu e cosa cercasse qui l'Unione Sovietica. I vecchi impianti d'estrazione del carbone, dell'oro o dello zinco di Ny-Ålesund, al contrario, provano a ricordare ai ricercatori della base Dirigibile Italia, al pari di quelli dell'ipertecnologica Amundsen-Nobile Climate Change Tower, quanto l'uomo, nell'Artico, sia solo di passaggio. Quanto le sue conquiste restino fragili. Un'inflessibile legge cosmica impone di togliere ciò viene preso oltre il lecito, ma di ripagare con un dono ancor maggiore, qualora si sia capaci di sacrificare qualcosa di sé. Per un Polo sorvolato con gran clamore dall'accoppiata Amundsen-Nobile, in quel fatico 26 maggio 1926, due anni dopo seguirono quasi immancabilmente lo schianto del dirigibile Italia, la morte del grande esploratore norvegese, la corsa contro il tempo per recuperare dieci uomini alla deriva.
Alpinioya, l'isola degli Alpini per lungo tempo invisibile alle mappe, lancia allora moniti verso chiunque non accetti il limite cui, nel bene o nel male, l'uomo è consegnato, ma di fronte al quale pare oggi non volersi rassegnare affatto. E se pure una spedizione commemorativa - come quella guidata nel 2010 dall'esploratore Piero Bosco e dalla sezione Ana di Cuneo (ma già pronta a replicare quest'anno) - dovrebbe essere accolta come invito a meditare sull'hybris dell'uomo, lo scioglimento dei ghiacci, l'annegamento degli orsi polari, le tempeste improvvise, l'arenamento delle balene si ostinano a ripetere che il tempo per tornare sui propri passi sta per scadere.
O forse scade, ogni singolo giorno che sfidiamo incautamente il Leviatano: creatura tanto immane, quanto ineffabile, che, attraverso il volto sfingico delle Svalbard e dell'Artico, pone sul piatto della bilancia il paradiso, senza concederci grazia, né perdono. Paziente, si sforza di parlare la nostra lingua dai pannelli del Museo delle Spedizioni di Longyearbyen, nelle luci blu del pittore Olaf Storoo o nel bianco accecante del suo collega Kåre Tveter, attraverso le mappe ingiallite raccolte presso la Galleri Svalbard, fra le pareti lignee della chiesa della città, dove un camino acceso, una tazza di caffè o un waffle non sono mai negati, purché si arresti infine il proprio passo. Si onori il silenzio. Si alzi lo sguardo verso quel mondo che continua ad abitare oltre l'illusione dei nostri schermi; ed enorme, terribile, infinito, si staglia al cospetto di un uomo piccolo piccolo. Qualcuno ha osato a dargli un nome: Svalbard Global Seed Vault. Il deposito sotterraneo di tutti i semi presenti sulla Terra. Si è confuso con l'Apocalisse.
Alberto Caspani
