Luigi Maria D'Albertis fra gli Uccelli del Paradiso (Papua)

10.11.2008

Grazie alle spedizioni dell'esploratore genovese, le sinistre nebbie che ancora avvolgono la seconda isola più grande del mondo cominciarono piano piano a diradarsi. Le verità svelate, però, continuano a dare i brividi

"Mister Kapitan? Mister Kapitan, sei qui?". Il professor Furir brancola nel buio, aggrappandosi a possenti stalagmiti e spuntoni di roccia, mentre le sue ciabatte di gomma sprofondano in pozze salmastre. Avanza con circospezione, quasi in ascolto delle correnti di vento caldo che s'insinuano nella grotta di Goras. A chilometri di distanza da pile di libri e sovraffollate aule universitarie, il sospetto che un sbuffo d'aria possa esser davvero l'alito di uno spirito marinaio non sembra più così improbabile. Le pareti levigate respirano di un luccichio diamantifero. Sotto i piedi, il mellifluo crepitio delle conchiglie mette i brividi.

"Prudenza! Prudenza!" - biascica l'anziano archeologo in un bagno di sudore - "Ormai qui entra solo chi cerca indizi sui primi abitanti di Papua. Quand'ero piccolo, invece, pescatori dei villaggi vicini speravano ancora di trovare reliquie appartenute a qualche povero diavolo, ma non di rado finivano per annegare. Onde improvvise possono scaraventare sino in fondo al tunnel". Si volta allarmato, non udendo risposta.


Difficile che lungo questo tratto della costa occidentale dell'isola, a circa cinque ore di barca dall'ex avamposto coloniale olandese di Fak Fak, possano riemergere tesori inestimabili, se non forse bombe a mano inesplose, mitragliatori arrugginiti od ossa di cadaveri giapponesi, vittime dei bombardamenti Alleati del 1944. Dal Dopoguerra ad oggi l'intero promontorio lambito dal Mare di Arafur è stato abbandonato, tanto che Furir non se ne dà pace: negli anni '60, andando a caccia di squali, per primo aveva scorto scogli a strapiombo coperti d'impronte di misteriosi abitanti. Da allora, però, pochi si sono presi la briga di studi approfonditi.


Sono innumerevoli. Bianche. Rosse. Ocra. Talvolta appaiono spasmodicamente sovrapposte, come se stessero protendendosi verso l'oceano per chiedere di liberarle dalla morsa della terra. Realizzate probabilmente con la stessa tecnica in uso fra gli aborigeni australiani, che attraverso i denti spruzzano pigmenti naturali per marcare la roccia, le impronte potrebbero risalire a 40mila anni fa. Qualche antropologo asserisce addirittura ad 80mila, ma sino a quando Jakarta continuerà a disinteressarsi della sua provincia più remota - e i viaggiatori internazionali a considerare Papua una sinistra periferia della civiltà - i fantasmi non smetteranno d'inquietare gli abitanti locali.

Eppure la posta in gioco è altissima: osservando la forma concava delle rocce che si levano dalle acque, simili a bolsi giganti coperti d'alghe, non è improbabile immaginare il tracollo in mare della metà dell'arco mancante, sgretolato da forze apocalittiche. Il mito locale di Omimin, inoltre, solleva cruciali interrogativi: pare che le impronte chiare siano state lasciate da una donna che accompagnava un uomo in queste zone, quelle scure da un'altra loro compagna. Tutti e tre avanzavano ciechi da est a ovest, dovendo aggrapparsi a ogni sporgenza che si offriva lungo il percorso, ma giunti nella zona del golfo di Berau, dove tuttora abbondano tracce rupestri, i loro occhi cominciarono improvvisamente a vedere e decisero perciò di stabilirsi lì. La donna bianca, Omimin, preferì invece continuare a camminare verso occidente, dove avrebbe dato origine alle stirpi dalla pelle chiara. 

"La sommersione del continente della Sonda non è una leggenda - ricorda Furir - e il caleidoscopio d'isole che formano l'arcipelago indonesiano dovrebbe apparire già di per sé un argomento probante. A qualcuno, però, fa comodo sostenere altre teorie, credere che le tribù locali siano arrivate qui da chissà quali peregrinazioni e tagliando fuori Papua dalle spiegazioni sull'evoluzione della specie, quando proprio noi siamo l'anello di giunzione per comprendere i grandi movimenti migratori dell'uomo".

Nelle parole dei Papua emerge non di rado un forte risentimento verso tutto ciò che è estraneo alla propria terra. Il mare, d'altra parte, ha portato sempre e solo sventure: i fucili dei Portoghesi nel '500, cui si deve il nome stesso dell'isola - Papua viene dal malese papuah, aggettivo per indicare i capelli crespi dei suoi abitanti - le croci missionarie di tedeschi fanatici, il giogo asfissiante degli olandesi, cui nel 1962 si è semplicemente sostituito quello dei javanesi, ironicamente giunti per liberare "il buon selvaggio" dallo sfruttamento coloniale. Arrivarono persino due barbuti italiani in cerca di avventure e meraviglie naturalistiche: il genovese Luigi Maria D'Albertis e il fiorentino Odoardo Beccari

Il 25 novembre 1871, col dottor O. Beccari, salpammo per Bombay. Alcuni amici ci avevano accompagnato a bordo, per essere gli ultimi ad augurarci buon viaggio e buona fortuna per la nostra impresa, l'esplorazione d'un paese selvaggio, misterioso, lontano: la Papuasia. L'idea di andare in un paese dalle foreste vergini e sempre verdi, nel paese dell'estate continua, ove avrei trovato l'uomo non ancora degenerato figlio della Natura, l'uomo selvaggio allo stato primitivo, mi stava così fissa nella mente, ed esaltava tanto la mia fantasia, da farmi parere eterni i momenti necessari a un bastimento per sortire il porto.

("Alla Nuova Guinea: ciò che ho veduto, ciò che ho fatto" - Luigi Maria D'Albertis, 1880)

A Papua D'Albertis tornerà da solo anche nei due anni successivi, oltre che lungo il fiume Fly nel biennio 1876/1877, collezionando ben 505 specie di uccelli - di cui 50 ancora sconosciute - così come insetti, serpenti e piante, arrivando addirittura a proporre ai Savoia l'isola come colonia. Non certo un grande investimento, all'epoca, stando alle sue meticolose osservazioni. "Qui c'è pericolo di morire non solo di febbre, ma anche di fame. Abbiamo finito il riso, non possiamo andare a caccia, tanto siamo malridotti, e i nativi non vogliono vendermi cosa alcuna". Poche le soddisfazioni, almeno agli inizi: "Finalmente oggi ho ucciso il primo uccello del paradiso, cioé un esemplare della Paradisea Papuana. L'emozione fu tale che, quando lo vidi cadere, corsi per prenderlo, dimenticando lo stato delle mie gambe, che pochi momenti prima non poteva quasi muovere". Non scorderà facilmente quell'adrenalina giovanile, finendo per vivere come un selvaggio quando sarà costretto a rientrare in Italia per via delle febbri, prendendo dimora prima nella campagna romana, poi a Sassari. In Sardegna terminerà i suoi giorni lontano da tutto e da tutti, proprio come il suo vecchio compagno Beccari in Chianti, entrambi incapaci di accettare il grigiore della vita borghese. Luigi si spense il 2 settembre del 1901, decidendo di farsi cremare in spregio al bigottismo di allora e a una società ormai succube del solo profitto.   

I proventi della miniera aurifera di Freeport, la più grande al mondo, vanno oggi a rimpinguare le tasche di Jakarta e di Washington, gas e petrolio sono appannaggio dei sudditi di Sua Maestà d'Inghilterra, mentre le multinazionali del legname divorano ogni giorno chilometri quadrati di foresta equatoriale. Ogni risorsa viene incessantemente depredata sotto lo sguardo indignato dei locali, incapaci di opporre altro ai carriarmati del governo, fuorché archi e frecce, o sporadici atti di rivolta guidati dal Movimento per la Liberazione di Papua.

Quando Furir depone un mazzo di garofani ai piedi di due colonne basiche, probabilmente Mr Kapitan è lì a sbirciare. Poco importa capire chi sia esattamente. Se un marinaio dei secoli andati, rintanatosi nella grotta di Mamasa alimentando le fantasie delle comunità locali, o piuttosto un profugo della Seconda Guerra Mondiale. L'importante è che apprezzi l'omaggio tributatogli ed interceda sommessamente per lo straniero: perché una volta abbandonata la costa, Papua ritorna ai silenzi impenetrabili di un mondo fermo all'età della pietra. Duro e selvaggio. Dove la minima imprudenza può costare il morso mortale di una vedova nera, o la freccia avvelenata di una tribù sconosciuta.

Dacché eravamo entrati nella foresta, non avevamo incontrato anima viva, ma, precedendo alquanto i miei compagni di viaggio, quando sortii da certe canne che crescono nel letto del torrente, m'incontrai faccia a faccia con una donna, la quale si volse tosto indietro, e fuggì come se avesse veduto il genio del male in persona. Guardando in quella direzione ove essa era sparita, vidi gente scendere dal monte per un sentiero scoscesissimo, se pure merita un tal nome il passo che può trovare un uomo che va colle mani e coi piedi. Intanto mi giunge all'orecchio il suono di molte voci, e pare siano dentro di me, e voltandomi, ecco che vedo sortir dalle canne, o sbucare da dietro gli scogli e i macigni del torrente, quasi come per incanto, una folla di gente. 

("Alla Nuova Guinea" - Luigi Maria D'Albertis)

Isolata per secoli dai grandi sconvolgimenti storici, inaccessibile ai più, il suo ecosistema è riuscito a conservare meraviglie uniche al mondo: petauri volanti, dingisi timidissimi, casuari talmente pigri d'aver dimenticato come usare le proprie ali, o magnifiche creature dalle piume color arcobaleno che - non temendo l'uomo - hanno finito per essere chiamate addirittura uccelli del paradiso. Ovunque lo sguardo si posi, riemerge la sensazione di trovarsi in uno degli ultimi eden terrestri: le spiagge dell'isola di Biak sono accarezzate da sabbie immacolate, mentre nei fondali di Raja Ampat sparuti divers raccontano d'aver avvistato creature impossibili. Inquietanti, poi, i megaliti zoomorfi che sorvegliano le acque del lago Sentani a Doyo Lama, le cui forme sfingiche, così come le incisioni da cui sono solcati, quasi li avvicinano ai resti di una civiltà aliena.


Il vero extraterrestre, in realtà, è l'uomo bianco, soprattutto se lo si vede arrivare dal cielo in piena jungla, magari a causa di un'avaria a un motore dei piccoli Cessna missionari che osano inoltrarsi nel cuore tenebroso dell'isola. In piccoli villaggi come Yaniruma o Mbasman è possibile contare ancora su una rete di contatti piuttosto solida, a tal punto che la presentazione del suran jalan, alla stazione locale della polizia, regala la rassicurante sensazione di una pacca sulla spalla: è il permesso rilasciato dal governo per esplorare le zone di frontiera, quelle in cui le analisi geopolitiche cedono ancora il posto a racconti straordinari e dove la scienza torna a farsi mito.

"Là dentro puoi contare solo su te stesso" - ammonisce un impiegato dell'esercito dalle ascelle pezzate - "Ti aspettano giorni di duro cammino, con le gambe sprofondate sino alle ginocchia nelle paludi, un'umidità capace di scioglierti in una pozza d'acqua e zanzare malariche che non perdonano. Buona fortuna!". Alcuni tremano e preferiscono tornare sui propri passi, magari a Wamena, dove nella drammatica valle del Baliem, ogni agosto, va in scena il festival della tribù dei Dani, usi a scagliare in aria lance e frecce, ma solo per gioco. Indigeni pronti a offrire prove d'abilità nel cucire borse di caurio o nell'infilare conchiglie di ciprea, dimostrando così di non essere solo abili coltivatori di patate dolci, ma abitanti di capanne di paglia che conoscono anche arti sopraffine, come quella d'affumicare le mummie dei loro avi guerrieri e conservarle intonse per centinaia d'anni.

Nella mattinata ho lavorato a farmi un piccolo laboratorio per operare con la mia macchina fotografica. A mezzogiorno dovetti smettere per un nuovo e forte attacco di febbre. Più tardi giunse David con una lettera del missionario di Mansinam, Tuan Van Hasselt. Egli dice essere cosa difficilissima combinare una gita alle falde dell'Arfak per via di mare, perché gli uomini di Dorey e Mansinam sono nemici con la gente degli Arfak. Quanto a Emberbaki, egli dice che a Mansinam potrei trovare gente che mi portasse su di un punto qualunque della costa di Emberbaki: ma non oltre, poiché quelli di Mansinam hanno grande paura dei Karon, popolo che abita in quei dintorni, perché si dice che siano cannibali.

("Alla Nuova Guinea" - Luigi Maria D'Albertis)

Oltre Yaniruma non si scherza. Ogni passo avanti è una benevola concessione dei capitribù Korowai e basta un movimento inaspettato, una parola di troppo o magari un sorriso incompreso, per farti sentire nudo come un casuario sulla brace. Le voci sul cannibalismo non sono solo dicerie. Non appena in cima agli alberi appare una khaim, capanna che le tribù locali costruiscono sino a venti metri dal suolo per sottrarsi ai predatori - animali o umani - le foglie delle palme di sago iniziano a frusciare. Richiami gorgheggianti coprono il verso dei cacatua terrorizzati. Dieci, venti, cinquanta selvaggi dai nasi traforati con ossa d'uccelli e un guscio di ghianda a coprire i propri genitali piombano lì appena il telefono perde il segnale. Tutti attorno ansimanti, nervosi e spaventati. Ma anche dannatamente curiosi.

Qualcuno tenta di allungare la mano verso quella strana creatura bianca che molti considerano un laleo, un demone ghiacciato. Però la ritraggono subito. Meglio un approccio meno compromettente: annusare le ascelle, il collo e il petto li rassicura molto di più. Solo se non si è imbevuti di qualche deodorante. Il rischio, altrimenti, è che si possa esser scambiati per khakhua, stregoni da cui ci si libera solo divorandone il fegato, lo stomaco e il cuore. Aver avvicinato già tanto un Korowai dovrebbe in ogni caso preservare da spiacevoli sorprese. Sono infallibili arcieri e, se davvero avessero timore del nuovo giunto, non ci penserebbero due volte a tendere una freccia dall'alto delle proprie abitazioni. Da quando hanno iniziato a riconoscere in lontananza il rumore delle motoseghe, anche la loro curiosità verso il mondo al di là della foresta è cresciuta a dismisura.

Sino alla fine degli anni '70 nessuno sapeva della loro esistenza e loro stessi erano convinti che oltre il cerchio delle piante si aprisse solo il regno degli spiriti vaganti. A causa di un missionario olandese, un certo Van Ewk, le cose sono un po' cambiate oggi. Tanto che la loro sopravvivenza potrebbe dipendere, solo e paradossalmente, dal turismo, pronto a tutelare il fascino del "buon selvaggio", purché questi abbassi la testa e accetti di mettersi in vetrina. Qualcuno ha abbracciato la croce e si sta sforzando di parlare indonesiano bahasa. Altri si sono lasciati convincere addirittura ad indossare vestiti logori. Più si "civilizzano", meglio è per Jakarta, che ha fame di legname e dollari. Può anche capitare di essere invitati a fumare pipe oblunghe o prender parte alla lavorazione del sago, la principale risorse dall'alimentazione Korowai, offrendo il quale riescono a rompere il ghiaccio con gli stranieri. Almeno un po'. Eppure, pensandoci bene, potrebbe essere anche l'evoluzione di una tecnica di caccia più astuta e sottile. Quando ricevi l'invito a cena da un presunto ex cannibale, il cui sorriso smagliante annuncia ai suoi un piatto speciale per la giornata, qualche dubbio s'insinua dispettoso.

Malacoscienza. "Fuori le teste di topo e le larve di scarafaggi. Oggi si festeggia!".

Sorridi imbarazzato. Già, chissà in quale modo...

Alberto Caspani

Per approfondimenti: 

Castello D'Albertis - Museo delle Culture del Mondo, Genova