L'Odissea della Groenlandia

21.05.2015

Mentre i ghiacci della più grande isola del mondo continuano a sciogliersi, riaffiorano mummie inuit e resti archeologici che rimettono in discussione l'origine della sua civilizzazione, confermando anche ipotesi di rivoluzionari studiosi italiani

"Gli ultimi villaggi della banchisa" sono salvi. Almeno per ora, visto che la fatidica data del 20 maggio 2015 ha infine sorriso alla coppia monegasca formata da Nathalie e Alain Antognelli, permettendo loro di mandare in stampa forse uno dei documenti più preziosi oggi prodotti sulla Groenlandia: un libro-reportage faticosamente finanziato in crowdfunding e dedicato alle loro pionieristiche spedizioni in kayak lungo la costa occidentale della più grande isola del mondo. Servivano 7mila euro per pubblicare l'intero materiale raccolto in tre differenti viaggi fra il 2009 e il 2014; ne hanno ottenuti ben 7.065.

"Al centro di rapidissimi cambiamenti politici, climatici e sociali - hanno dichiarato i due fotoreporter - la Groenlandia conosciuta sino ad ora potrebbe rivelarsi tutt'altro nell'arco di pochi anni. Per questo abbiamo deciso di esplorare le sue comunità più isolate partendo in kayak da Upernavik e finendo per toccare quasi 50 villaggi legati ancora a uno stile di vita tradizionale: tanta curiosità, ma soprattutto pochi fronzoli. A bordo non potevamo trasportare che un carico di circa 60 chili, inclusivo di riserve di cibo, un fucile, un telefono all'iridio, salumi disidratati, oltre naturalmente all'attrezzatura di sicurezza e all'equipaggiamento per campeggiare, con tanto di computer, mappe e GPS. Il tutto, quasi sempre in doppia copia, onde non correre rischi di perdite irreparabili".

Accompagnati per quasi 3.500 km da balene mattacchione, pronte a provocare per ore con spruzzi di sfida e falsi speronamenti, Nathalie e Alain pensavano inizialmente di raggiungere Savissivik, 76 gradi di latitudine a nord, solo per svernare. In realtà sono stati adottati da una delle socievolissime famiglie locali, venendo direttamente coinvolti nella vita degli ultimi cacciatori di narvali, proprio come ripetutosi fra i circa 200 abitanti dell'ancor più remoto Nuussuaq. Da pionieristica missione geografica, il loro viaggio è rimasto avvinto a vite nomadi da preservare a ogni costo, documentandone la fragile bellezza in un lungometraggio al debutto in questi giorni su TV5 Monde. La città di Milano non intende però esser da meno rispetto al canale televisivo francofone, potendo far conto sul festival Be Nordic quasi negli stessi giorni, fra il 22 e il 24 maggio: una grandiosa celebrazione del mondo artico e scandinavo, attraverso presentazioni di libri, videoproiezioni, assaggi gastronomici, musica e lezioni di lingua.

"Naturalmente non tutti avvicinano la Groenlandia in modo così intraprendente - evidenzia lo specialista della destinazione Peter Morell Hansen, direttore del tour operator danese Arctic Adventure - tenuto conto che i mezzi di spostamento più utilizzati dai locali stessi restano i traghetti dell'Arctic Umiaq Line, in grado di spingersi tanto fra i fiordi quanto fra gli allevamenti di pecore, mentre in tavola vengono serviti blocchi fumanti di bue muschiato e patate. Ma sono almeno 5 le esperienze che ciascun visitatore della Groenlandia vuole immancabilmente provare, a tal punto che oggi si parla addirittura di "Big 5" artici: le corse sulle slitte trainate da cani, la visione delle incredibili luci boreali, l'hiking fra le sorprendenti architetture di ghiaccio e l'avvistamento delle balene, cui non da ultimo si aggiunge proprio l'immersione nello stile di vita dei più estremi pionieri del globo terrestre". L'interesse verso le loro abitudini quotidiane, ma soprattutto intorno alle origini delle comunità più remote, sta crescendo di pari passo alle rivelazioni lasciate affiorare dal ghiaccio: una nuova - e forse ultima - era geologica destinata a riscrivere radicalmente la storia dell'uomo.

Di recente hanno fatto scalpore le dichiarazioni di un team di archeologi danesi e canadesi, secondo i quali la Groenlandia - "scoperta" attorno all'anno mille - non sarebbe rimasta del tutto disabitata dopo la fine dei contatti con le comunità vichinghe nel XV secolo: "le analisi delle ossa di animali risalenti agli allevamenti dei coloni - hanno confermato Jan Heinemeirer e Niels Lynnerup, ricercatori dell'Università di Aarhus in Danimarca - non mostrano alcun segno di deterioramento o malattia, nonostante il raffreddamento del clima avesse spinto i coloni a modificare la dieta propria e quella del bestiame, traendo sostentamento soprattutto dal mare. In realtà l'isolamento delle loro comunità parrebbe dovuto al declino in Europa della domanda di pelli di foca e zanne di tricheco, attraverso cui i coloni riuscivano a procurarsi oggetti in metallo per meglio sostenere le sfide ambientali. Non più allevatori ma pescatori, messi di fronte a un'inevitabile perdita d'identità, i discendenti dei vichinghi avevano solo due vie da imboccare: trasformarsi loro stessi in Inuit, o emigrare".

Benché l'ultimo atto ufficiale della loro presenza sia stato ricondotto al matrimonio celebrato nella chiesa in rovina del fiordo Hvalsey, il 14 settembre 1408, è il numero decrescente di scheletri maschili nelle sepolture a lasciar supporre una graduale emigrazione dei locali, anziché un esodo di massa destinato a svuotare improvvisamente l'isola. Per Christian Koch Madsen, studente-ricercatore del Museo nazionale della Danimarca, la vita colonica sarebbe cioè proseguita in Groenlandia per altri 200 anni almeno dall'ultimo matrimonio attestato, mentre una parte dei discendenti si fondeva con le comunità Inuit.

Il "caso Qilakitsoq", la mummia di un bimbo di sei mesi sepolto vivo insieme alla madre e ritrovato nel 1972 (insieme ad altri sei corpi oggi esposti nel Museo di Nuuk), risulta piuttosto emblematico circa lo stile di vita nella Groenlandia di 500 anni fa: potendo contare su una dieta essenzialmente marina ma pur sempre completa, non era la scarsità di cibo a favorire l'assottigliamento delle comunità, bensì il problema delle menomazioni fisiche. Il bimbo di Qilakitsoq era affetto dalla sindrome di Down, causa inevitabile d'abbandono al gelo da parte di una comunità che, privata dell'apporto degli uomini più sani e intraprendenti, non poteva permettersi di mantenere individui inadatti alla dura selettività ambientale. Lo stesso si può indurre circa la mummia di un'altra donna ritrovata nella medesima sepoltura, il cui Dna attesta fosse sorda, cieca e colpita da un tumore. 

Lungi dal relegare la vita in Groenlandia a un breve arco di secoli, partendo sempre e solo da un punto di vista etnocentrico, la combinazione di studi archeologici, antropologici e biologici sta piano piano adducendo graduali conferme a una delle teorie più audaci formulate dagli studiosi: l'isola polare come prima e originaria culla dell'umanità, a partire dalla quale si sarebbero poi diffusi e differenziati i popoli delle grandi civiltà terrestri. Un'idea fermamente sostenuta dal padre della nazione indiana Bal Gangadhar Tilak nel suo epocale saggio "The Arctic Home in the Vedas", uscito nel 1903, ma ripreso in modo ancor più convincente dal ricercatore contemporaneo Felice Vinci, assurto agli onori della cronaca mondiale per il suo rivoluzionario libro "Omero nel Baltico". Partendo dal paradosso dell'ubicazione geografica dell'antica isola di Ogigia, citata dallo scrittore greco Plutarco nell'opera De facie quae in orbe lunae apparet, Vinci non si è limitato a riconoscerla nell'odierno paradiso degli uccelli dell'arcipelago delle Far Øer (l'isola Mykines), ma ha evidenziato meticolose corrispondenze fra l'antico mondo acheo dell'Iliade e dell'Odissea e l'intera area scandinavo-baltica.

Proprio il cuore della Danimarca sarebbe stato sede dell'agognata Itaca di Ulisse (coincidente con l'odierna isola megalitica di Lyø), al pari del Peloponneso di Menelao (l'isola, come vuole fra l'altro l'originale nome greco, di Sjaellend), spingendo via via i confini del poema sino alla Casa dell'Ade nell'area di Capo Nord, alla terra dei Ciclopi lungo la costa norvegese o alla sventurata città di Troia nella Finlandia meridionale. Mari lividi, fitte nebbie, biondi eroi, nomi insospettabilmente assonanti: le immagini e le parole di Omero, assai più vicine a un paesaggio atlantico che mediterraneo, rievocano nell'area artica il bacino di una fiorente civiltà dell'Età del Bronzo. Una grande famiglia linguistica (e forse genetica, come il caso degli antichi "Inuit biondi" lascia sospettare), di cui la storia greca non sarebbe che l'eco lontana, dovuta al trasferimento delle sue genti per via dell'inasprimento del clima nordico.

La "scoperta" della Groenlandia, sotto quest'ottica, assume allora la dimensione di un ritorno al vero luogo d'origine, il cui ricordo si è probabilmente affievolito nel corso dei millenni, senza estinguersi mai del tutto. Una sorta di magnetismo che va ben al di là del mero fenomeno fisico d'orientamento delle bussole. Si tratterebbe piuttosto di quell'ancestrale "richiamo", di cui costantemente hanno parlato i più insigni esploratori della Groenlandia, italiani inclusi: da Leonardo Bonzi, che nel 1934 usò la famosa slitta di Nansen per penetrare il fiordo di Scoresby (oggi conservata al museo di Copenhagen), a Silvio Zavatti, fondatore dell'Istituto geografico polare italiano e studioso dell'area di Ammassalik; dalle molteplici spedizioni di Guido Monzino negli anni '60, alla prima missione in solitaria di Carlo Bondavalli nel 1982, fra i pochi a raggiungere proprio il Polo Magnetico. Ma se gli esploratori finiscono spesso sotto i riflettori della ribalta per loro imprese mirabolanti, non meno decisivi sono stati i contributi di studiosi come Giulia Bogliolo Bruna, esperta sui primi contatti fra Inuit ed Europei, o Gabriella Massa, autrice del Manifesto per i Poli ("Più cultura per salvare la Natura"), per arrivare a Daniela Tommasini, professoressa del dipartimento NOrs-North Atlantic and Arctic Studies presso l'università di Roskilde, nonché autrice di una ricerca sulle modalità di sviluppo sostenibile del turismo in Groenlandia.

Analizzando i casi delle piccole comunità di Ukkusissat, Itilleq, Qaanaaq e Ittoqqortoormit, verso cui tendono ormai a spingersi crociere capaci di trasportare sino a 3mila passeggeri, il rischio d'impoverire le comunità locali comprando tutto ciò che hanno da offrire è quasi associabile a un atto di predazione: al turismo in Groenlandia va perciò riconosciuto uno statuto speciale che, al consumo di beni materiali, sostituisca piuttosto quello di trasmissione di cultura o di tecniche, proprio come un tempo avveniva per l'ingaggio degli aedi e dei cantori di saghe. Una piccola, ma fondamentale rivoluzione, a partire dalla quale tornare ad abitare il mondo nella dinamica dello scambio alla pari. Perché la Groenlandia è, e oggi si conferma ancor più, casa del nostro sapere: una casa, però, fatta di ghiaccio che si scioglie, e si rigenera, là dov'è la Natura sola a scandirne l'eterno ritmo. 

Alberto Caspani  (testo)

 Mads Pihl (foto)