Raccontare la storia dell'esplorazione nel XXI secolo

23.06.2022

Il Bicentenario della Société de géographie è la dimostrazione emblematica di come la storia europea sia condannata a ripetersi. Celebrato dal 10 maggio al 21 agosto 2022 presso la Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, dov'è stata allestita la mostra "Visage de l'Exploration au XIXe siècle - Du mythe à l'histoire", l'evento chiude un'epoca, senza aprirne una nuova. O meglio, prova a farlo restituendo voce anche a protagonisti "minori", i cui viaggi contribuirono all'avanzamento del sapere geografico tanto quanto riuscì a fare l'esploratore "ideale": un uomo bianco, preferibilmente di lingua francese, amante dell'avventura in solitaria, ma conquistato da una visione sempre più metodologica e scientifica dell'Altrove, al punto da ridurlo a mera risorsa economica dell'imperialismo capitalista.

Ancor più curioso e fatidico, però, è che il Bicentenario cada a cavallo fra il 2021 e il 2022: periodo in cui gli effetti della pandemia, sommati alle conseguenze della guerra russo-ucraina, stanno non solo ripiegando i confini della globalizzazione entro spazi sempre più asfittici, ma producono anche un svuotamento prospettico del tempo, ancorandolo all'eterno presente del digitale. Quando "la plus ancienne société de géographie du monde" venne fondata il 15 dicembre 1821 presso Hôtel de Ville di Parigi, i 217 studiosi che decisero di associarsi erano quasi tutti ex membri delle spedizioni di Napoleone Bonaparte, scomparso proprio il 5 maggio di quello stesso anno: uomini dei Lumi, ma per ironia della sorte risospinti al punto di partenza di quella straordinaria epopea di emancipazione della ragione, incarnata (e sotto sotto tradita anche) dal geniale còrso. La Parigi del 1821, per quanto inquieta e insoddisfatta, era di nuovo capitale di un regno monarchico, rappresentato dal rancoroso re borbonico Luigi XVIII.

Et voilà! L'eterno ritorno dell'Ancien Régime, sotto le spoglie di una costituzionalità senza dubbio diversa dall'assolutismo pre-rivoluzionario, ma figlia della stessa metafisica degli eredi culturali di René Descart. Il dualismo sancito dal filosofo razionalista fra pensiero (res cogitans) e realtà (res extensa), di cui il "Discorso sul metodo" (1637) e le "Meditazioni metafisiche" (1641) restano pietre miliari, è infatti un modello cognitivo di cui la scienza europea fatica enormemente a sbarazzarsi. Ieri come oggi. La mostra "Visage de l'Exploration au XIXe siècle - Du mythe à l'histoire" lo dimostra in modo sin troppo esplicito: anziché interrogarsi su come il linguaggio - o per dirla col sinologo François Jullienne - la "lingua" della scienza generi evidenze che non riescono a essere più pensate, riformula la domanda cambiando giusto l'impostazione etico-morale. Nel numero 1585 (giugno-agosto 2022) della rivista ufficiale della Société de géographie, intitolata "La Géographie - Terres des Hommes", la curatrice della mostra Hélène Blais si chiede infatti: "Comment raconter l'histoire de l'exploration du monde?".

In quanto professoressa di Storia contemporanea all'École Normale Supérieure di Parigi, è ben consapevole che parlare di esplorazione nel XXI secolo richieda una revisione profonda dei nostri criteri di giudizio: gli oltre 200 diari, mappe, fotografie e oggetti raccolti in esposizione non bastano più a ricostruire l'imago mundis. Sebbene contraddistinti da storie e personalità alquanto differenti, sia esploratori come gli italo-francesi Pietro Savorgnan di Brazzà e Joseph Gallieni, sia i francesissimi Dumont d'Urville e Charles de Foucauld, restano espressione di una società europea andro-centrica. Ecco allora apparire fra i pannelli anche volti e sensibilità differenti, incarnate da una Gabrielle Vassal in cerca di scimmie nelle foreste del Gabon, o da una Octavie Coudreau cartografa in Guiana francese. Ecco affacciarsi nella storia dell'esplorazione bianca pure la guida indigena Tunguse di Joseph Martin, il musulmano dal piede intrepido El Hadj Ahmed ben Mohammed el Fellati, l'ex schiavo Apatou che accompagna Jules Crevaux in Amazzonia, e il capo pundit Nain Singh, impegnato a misurare l'altitudine di Lhasa in Tibet. Attraverso gli sguardi dell'ombra, di quelle personalità apparentemente marginali rispetto alle grandi imprese degli uomini bianchi, la mostra prova a far emergere un'altra storia: "quella delle diverse forme di appropriazione del mondo - spiega l'introduzione della Biblioteca Nazionale di Francia - durante l'era coloniale. Testimonia l'intreccio di pratiche di esplorazione scientifica e operazioni di conquista territoriale che, senza essere sistematico, era realtà". E ancora: "Le ricostruzioni scenografiche permettono, attraverso un approccio immersivo, di riscoprire la quotidianità delle esplorazioni: immaginare un geografo parigino nel suo studio, ritrovarsi nel cuore di un campo di esploratori in mezzo al Sahara, riscoprire l'atmosfera di una mostra etnografica di oggetti siberiani, o addirittura partecipare a una conferenza-proiezione come membro della Société de géographie".

Lo sforzo di uscita dalla visione eurocentrica del mondo è dichiarato, ma sul piano teoretico manca il bersaglio: in primo luogo, gli organizzatori della mostra non si avvedono che anche la mutata sensibilità etico-morale dell'europeo del XXI secolo è parte di un processo storico, all'interno del quale l'universalità dei diritti dell'uomo (e della donna, del bambino, del transessuale e di tutte le categorizzazioni che il nostro linguaggio potrà sempre trovare) sono un prodotto delle pratiche del sapere, non verità astratte nell'iperuranio delle idee perfette. In seconda battuta, il ripiegamento attuale della globalizzazione rende paradossalmente anacronistico valorizzare il contributo scientifico della "diversità", quando questa stessa viene rispolverata come fattore geostrategico per giustificare le ragioni d'attrito internazionale. Tertium, il metodo scientifico (cartesiano) alla base della mostra - e inevitabile pilastro della Société de géographie - modifica la scala dei valori, li riorganizza in una nuova forma di classificazione basata sui principi della differenza e della similitudine, senza mettere veramente in questione il modello analogico-rappresentativo del sapere europeo.

"Se lo scarto e la differenza - ha argomentato proprio François Julliene nel suo saggio "Essere o vivere" (Feltrinelli 2016, p. 261) - hanno in comune l'idea di separazione, la differenza segna una distinzione, mentre lo scarto apre una distanza. (...) Lo scarto non è una figura identificante, ma esplorativa, direi euristica: la questione, allora, non è più 'che cos'è' la cosa nella sua singolarità, per differenza/e, ma 'fino a dove' si spinge lo scarto, eccedendo da quanto è stabilito. Lo scarto non è una figura classificatrice che produce un ordinamento, come fa invece la differenza (la differenza è lo strumento delle tipologie), ma al contrario è una figura di disturbo (come quando si dice: fare uno scarto, a proposito del linguaggio o della guida al volante). In questo senso lo scarto si oppone a qualcosa di atteso, di scontato, di ordinario e convenuto, o diciamo: al noto".

Se esplorare è ancora possibile, in un mondo che prima ha distorto la globalizzazione e oggi intende rigettarla con altrettanta violenza, abbiamo il dovere di lasciare aperta la via: abitare la terra, anziché farne una mappa che, di volta in volta, crediamo migliore della precedente perché più aderente all'idea di identità o universalità. Idea che solo l'uso della nostra lingua pone sempre al di là dei limiti, anziché nel "tra" da cui essi stessi prendono forma.

Alberto Caspani

(articolo originalmente pubblicato su ICOOinforma)